user preferences

New Events

Nord America / Messico

no event posted in the last week
Search author name words: Noam Chomsky

Elezioni, economia, guerra e pace

category nord america / messico | imperialismo / guerra | opinione / analisi author Monday April 20, 2009 19:07author by Noam Chomsky Report this post to the editors

La parola che fin da subito è corsa su tutte le bocche e che si è potuta udire a commento delle elezioni presidenziali è stata "storico", un evento "storico". E giustamente. Una famiglia di neri che si insedia nella Casa Bianca costituisce davvero un evento importante.


Elezioni, economia, guerra e pace

Noam Chomsky

 


Elezioni

La parola che fin da subito è corsa su tutte le bocche e che si è potuta udire a commento delle elezioni presidenziali è stata "storico", un evento "storico". E giustamente. Una famiglia di neri che si insedia nella Casa Bianca costituisce davvero un evento importante.

E non senza sorprese. Ad esempio che la partita non era già decisa dopo la convention democratica. In base agli indicatori più ricorrenti, il partito all'opposizione avrebbe dovuto riportare una vittoria schiacciante data la severa crisi economica in corso e dopo otto anni di politiche disastrose su tutti i fronti, compreso il peggior tasso di crescita dell'occupazione che si ricordi per un presidente in carica in un dopo-guerra ed un inusitato declino della ricchezza media, un lascito così impopolare che lo stesso Partito Repubblicano ha dovuto prendere le distanze dal suo presidente ed infine un tonfo preoccupante della credibilità degli USA a livello mondiale. I Democratici hanno certamente vinto, ma per poco. Se la crisi finanziaria avesse tardato solo un po', eh no, non avrebbero vinto.

Una buona domanda a cui rispondere, infatti, è come mai – date le circostanze – il margine di vittoria dei Democratici sia stato così ristretto. Una possibile risposta sta nel fatto che nessuno dei due partiti si trovava al momento in sintonia con una opinione pubblica che per l'80% riteneva il paese alla deriva ed il suo governo nelle mani di "un gruppo intento alla difesa dei propri interessi" e non della gente, mentre un terrificante 94% riteneva che il governo non ascoltasse l'opinione pubblica. Come molti studi hanno confermato, entrambi i partiti erano più a destra della popolazione su molte questioni, dagli affari interni a quelli internazionali.

Si potrebbe obiettare che nessun partito che si facesse portavoce dell'opinione popolare potrebbe aver successo in una società regolata dalle leggi del business in ogni sua manifestazione. E la cosa è con tutta evidenza dimostrabile, Lo conferma, a livello generale, il profetico successo dell'economista politico Thomas Ferguson e della sua "teoria dell'investimento" della politica, in base alla quale le scelte politiche tendono a riflettere i desiderata dei blocchi di potere che investono ogni quattro anni per il controllo dello Stato. Si possono portare al riguardo numerose e specifiche argomentazioni. Ma, per dirne una, per 60 anni gli Stati Uniti non sono mai riusciti a ratificare il principio costitutivo della legislazione internazionale sul lavoro, quello che garantisce la libertà di associazione. Gli analisti giuslavoristi lo chiamano "il trattato intoccabile nella politica americana" e fanno notare che non vi è stato mai alcun dibattito su tutta la materia. E molti hanno denunciato come Washington abbia disapplicato le convenzioni dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro perché in contrasto con le politiche fortemente dedicate a rafforzare il diritto al monopolio sui prezzi concesso alle corporations ("diritto alla proprietà intellettuale"). Ci sarebbe molto altro da aggiungere, ma non è questo il luogo.

I due candidati nelle primarie dei Democratici erano una donna ed un afro-americano. Si è trattato di due candidature storiche. Entrambe sarebbero state inimmaginabili 40 anni fa. Il fatto che il paese sia diventato abbastanza civile per accettare questa novità costituisce una sorta di tributo ai movimenti degli anni '60 ed al loro lascito.

In qualche modo le elezioni hanno avuto un percorso già visto. La campagna di McCain è stata così piatta da lasciar intendere che non si sarebbe votato sulle questioni vere. Ha fatto notizia sul Financial Times che il parrucchiere di Sarah Palin percepiva uno stipendio doppio del consigliere di McCain per la politica estera, probabilmente una delle riflessioni più accurate sulla significatività della campagna elettorale. Il messaggio di "speranza" e di "cambiamento" lanciato da Obama era una sorta di lavagna pulita offerta ai suoi sostenitori su cui scrivere i loro desideri. Certo, si potevano trovare le rispettive posizioni politiche sui loro siti web, ma raramente questo materiale si trasforma in politica spettacolare, e in ogni caso, ciò che si fa strada nelle scelte dei votanti è quello che la campagna elettorale ti pone al centro e ti mette di fronte, come i dirigenti di partito ben sanno.

La campagna elettorale di Obama ha fortemente impressionato l'industria della pubblicità, la quale ha nominato Obama "pubblicitario dell'anno per il 2008", di gran lunga davanti alla Apple. Il primo compito dell'industria della pubblicità è quello di assicurarsi che i consumatori abitudinari facciano scelte irrazionali, di modo da scardinare le teorie del mercato. Ed allo stesso modo, scardinare anche la democrazia.

Il Center for Responsive Politics conclude nel suo rapporto che ancora una volta le elezioni sono state comprate: "I candidati con i maggiori fondi a disposizione hanno vinto 9 volte su 10 nei testa a testa e tutti i membri del Congresso, tranne pochi, faranno ritorno a Washington". Prima delle conventions, i candidati in corsa con la maggior parte di fondi provenienti da parte delle istituzioni finanziarie erano Obama e McCain, entrambi col 36% a testa. I risultati preliminari indicano che in definitiva i contributi alla campagna di Obama, per comparto, si sono concentrati tra i Leggifici (inclusi i lobbysti) e le istituzioni finanziarie. La teoria dell'investimento della politica suggerisce alcune conclusioni sulle politiche guida della nuova amministrazione.

Il potere delle istituzioni finanziarie riflette il crescente scostarsi dell'economia dalla produzione verso la finanza a partire dalla liberalizzazione della finanza risalente agli anni '70, una delle cause alla radice dell'attuale malessere economico: la crisi finanziaria, la recessione nell'economia reale, e la miserabile performance dell'economia per una grande maggioranza di popolazione, i cui salari reali sono rimasti fermi per 30 anni, mentre si riduceva il salario accessorio. Il campione di questo impressionante record, Alan Greenspan, ha attribuito il suo successo alla "crescente insicurezza del lavoro" che ha portato ad una "atipica contrazione delle entrate compensative" – e le entrate corrispondenti nelle tasche di quelli che contano. La sua incapacità di percepire la drammatica bolla edilizia, che seguiva il collasso della precedente bolla tecnologica da lui gestita, è stata la causa prima dell'attuale crisi finanziaria, come egli stesso ha riconosciuto tutto contrito.

Le reazioni alla elezione di Obama hanno avuto in genere uno spettro coerente con la "retorica sublime" che ha contraddistinto la campagna di Obama. Un corrispondente esperto come John Hughes ha scritto che "l'America ha appena dato a tutto il mondo uno straordinario esempio di democrazia applicata", mentre lo storico e giornalista inglese Tristram Hunt, ha scritto che le elezioni hanno mostrato come l'America sia una terra "dove i miracoli possono accadere", al pari della "gloriosa epica di Barack Obama" (del giornalista francese di sinistra Jean Daniel). "In nessun altro paese del mondo sarebbe stata possibile questa elezione" ha detto Catherine Durandin dell'Istituto per le Relazioni e le strategie Internazionali di Parigi. Molti altri non sono stati meno estatici.

La retorica ha qualche giustificazione se restiamo in Occidente, ma altrove le cose vanno diversamente. Come nel caso della più grande democrazia del mondo, l'India. Il primo ministro dello Uttar Pradesh, che è uno dei paesi più grandi al mondo ed è noto per il pessimo trattamento che riserva alle donne, non solo è una donna ma è anche una dalit ("intoccabile"), al più basso rango dello sciagurato sistema delle caste vigente in India.

Tornando all'emisfero occidentale, prendiamo in considerazione i due paesi più poveri: Haiti e la Bolivia. Nelle prime elezioni democratiche del 1990 in Haiti, i movimenti di base organizzati nelle periferie e sulle colline, riuscirono ad eleggere, sebbene privi di fondi, il loro candidato, il popolare prete Jean-Bertrand Aristide. L'esito delle elezioni sorprese gli osservatori che si aspettavano una facile vittoria per il candidato delle elite e degli USA, un ex-funzionario della Banca Mondiale.

In verità, la vittoria per la democrazia venne presto ribaltata da un colpo di stato militare, a cui sono seguiti anni di terrore e di sofferenza fino ad oggi, con il contributo decisivo di due dei tradizionali torturatori di Haiti: la Francia e gli USA (contrari ad illusioni di autosufficienza). Ma quella vittoria in Haiti fu veramente uno "straordinario esempio di democrazia applicata", molto più del miracolo Obama del 2008.

Lo stesso si può dire per le elezioni del 2005 in Bolivia. La maggioranza indigena, la popolazione più oppressa nell'emisfero (tra i sopravissuti), ha eletto un candidato del popolo, un povero contadino, Evo Morales. La vittoria elettorale non è stata costruita sulla base di una retorica fascinosa sulla speranza e sul cambiamento, o sulla postura del corpo o con il battere di ciglia, bensì sui temi cruciali, da tutti gli elettori ben conosciuti: il controllo sulle risorse, il diritto alla cultura e così via. Inoltre, le elezioni sono state solo uno stadio all'interno di una lunga ed intensa stagione di lotte popolari a fronte di una dura repressione, lotte che hanno portato a vittorie decisive, come contro la privatizzazione dell'acqua che si voleva toglierla alla povera gente.

Questi movimenti popolari non sono adusi a prendere ordini dai dirigenti di partito. Anzi, hanno formulato le linee politiche che i loro candidati prescelti dovevano portare avanti. Si tratta di un modello di democrazia alquanto differente da quello occidentale, come quello che abbiamo visto all'opera nelle reazioni alla vittoria di Obama.

Sul liberale Boston Globe, l'incipit dell'editoriale diceva che "la strategia di Obama è radicata nella base sociale e concede ben poco ai gruppi d'interesse": come sindacati, donne, minoranze, o altri "tradizionali costituenti della democrazia". Tutto ciò è solo parzialmente vero, perché si ignora il massiccio finanziamento da parte di settori ben concentrati del capitale. Ma lasciando da parte quest'ultimo dettaglio, l'articolo non sbaglia nel dire che le mani di Obama non sono legate, perché il suo debito è solo verso "quella base sociale fatta da un esercito di milioni " – che ha preso sì ordini, ma non ha contribuito minimamente alla formulazione del suo programma.

All'altro capo dello spettro dottrinale, un titolo sul Wall Street Journal dice "L'esercito popolare è fermo e pronto" – cioè pronto a seguire le istruzioni di Obama per "spingere il suo programma" qualunque esso sia.

Gli organizzatori di Obama considerano la rete che hanno costruito come "un movimento di massa con una capacità senza precedenti di influenzare gli elettori", scrive il Los Angeles Times. Il movimento, organizzato intorno al "marchio Obama" può fare pressioni sul Congresso per "far passare l'agenda di Obama". Ma non deve sviluppare idee e programmi sui quali chiamare i suoi rappresentanti a portarli avanti. Questo rientrerebbe in un "vecchio modo di fare politica" da cui i nuovi "idealisti" vogliono "affrancarsi".

E' istruttivo confrontare questa rappresentazione col funzionamento di una democrazia come quella boliviana. I movimenti popolari del terzo mondo non si conformano alla dottrina preferita in Occidente per cui la "funzione" del popolo "dei marginali ignoranti ed importuni" deve essere quella di "spettatori dell'azione" e non di "partecipanti" (vedi Walter Lippmann, nella sua articolazione di una visione standard progressista)
Forse c'è qualcosa di vero in quello slogan tanto di moda che parla di "scontro di civiltà".

Nella fasi iniziali della storia Americana, il popolo si rifiutava di attenersi alla "funzione" che gli era stata assegnata. L'attivismo popolare è stato ripetutamente la forza che ha portato alla sostanziale acquisizione della libertà e della giustizia. L'autentica speranza della campagna di Obama è che "l'esercito di base" organizzato per prendere ordini dal suo leader possa "affrancarsi" e ritornare a quel "vecchio modo di fare politica" che significa partecipazione diretta all'azione.

America Latina

In Bolivia, come ad Haiti, gli sforzi per promuovere la democrazia, la giustizia sociale ed il diritto alla cultura, per realizzare disperatamente i necessari cambiamenti strutturali ed istituzionali sono, ovviamente, aspramente contrastati dai governanti tradizionali, in gran parte da quella elite bianca europeizzata delle province orientali, sede della maggior parte delle risorse naturali continuamente concupite dall'Occidente. Va da sé che naturalmente il movimento semi-secessionista di questa elite viene sostenuto da Washington, che ancora una volta fa grande fatica a nascondere il suo disgusto per la democrazia quando non è conforme ai suoi interessi economici e strategici. La generalizzazione è senz'altro il risultato di seri studi, ma sembra non funzionare granché alla prova della tanto riverita "agenda della libertà".

Per punire i boliviani per aver dimostrato "al mondo uno straordinario esempio di democrazia applicata", l'amministrazione Bush ha revocato gli accordi commerciali con la Bolivia, mettendo a repentaglio decine di migliaia di posti di lavoro, col pretesto che la Bolivia non stesse cooperando con gli USA nel contrapporsi al narco-traffico. Nel mondo reale invece, l'ONU stima che il raccolto di coca in Bolivia sia aumentato del 5% nel 2007, a fronte del ben 26% di incremento in Colombia, lo Stato del terrore che è l'alleato regionale più vicino a Washington, nonché beneficiario di enormi aiuti militari. L'agenzia AP dice che "i sequestri di cocaina della polizia boliviana in collaborazione con gli agenti della DEA sono pure drammaticamente aumentati durante il governo di Morales."

"Le guerre della droga" sono state regolarmente usate quale pretesto per la repressione, la violenza ed i crimini di stato, in patria come all'estero.

Dopo la vittoria di Morales in un referendum re-indetto nell'agosto 2008, con un forte incremento dei voti a favore di Morales stesso rispetto al 2005, l'opposizione di destra è diventata violenta, fino ad uccidere molti contadini sostenitori del governo. Dopo il massacro, è stato convocato a Santiago del Cile un meeting al vertice dell'UNASUR, la recente Unione delle Repubbliche del Sud America. Ne è uscito un documento di forte appoggio al governo legittimo di Morales, letto dalla presidente cilena Michelle Bachelet. Nel documento si dichiara "il pieno e fermo appoggio al governo costituzionale del presidente Evo Morales, il cui mandato è stato ratificato a stragrande maggioranza" – con riferimento alla sua poderosa vittoria nel referendum del mese prima. Morales ha ringraziato la UNASUR per il suo sostegno, osservando che "per la prima volta nella storia del Sud America i paesi della nostra regione stanno decidendo su come risolvere i nostri problemi senza la presenza degli Stati Uniti."

Un fatto senz'altro significativo, che non ha avuto alcuna eco negli USA.

La Amministrazione

Guardando al futuro, cosa possiamo realisticamente aspettarci dalla amministrazione Obama? Abbiamo a disposizione due fonti d'informazione: le azioni concrete e la retorica.

Le azioni più importanti finora sono state quelle per la selezione dello staff presidenziale. La prima selezione è stata sul nome del vice-presidente: Joe Biden, uno dei più forti sostenitori dell'invasione dell'Iraq tra i senatori democratici, uno addentro da lungo tempo agli ambienti di Washington, che vota spesso con i suoi colleghi democratici, ma non sempre, come quando ha votato a favore di una misura per rendere più difficile la possibilità di cancellare i debiti ricorrendo alla dichiarazione di fallimento.

La prima nomina del dopo-elezione è stata quella per il ruolo cruciale di capo dello staff: Rahm Emanuel, uno dei più strenui sostenitori dell'invasione in Iraq in casa democratica e al pari di Biden, politico di lungo corso a Washington. Emanuel è anche uno dei maggiori beneficiari dei contributi di Wall Street alla campagna elettorale, come riporta il Center for Responsive Politics. "Nel ciclo elettorale del 2008 egli era in testa ai beneficiari tra i Democratici alla Camera per contributi da hedge funds, private equity ed investimenti nella previdenza sociale". A partire dalla sua elezione al Congresso nel 2002, egli "ha ricevuto denaro soprattutto da singoli e dal settore dei PAC nella previdenza come dal mondo degli investimenti in affari"; ce ne sono anche tra i maggiori donatori di Obama. Il suo compito è quello di sovrintendere all'approccio che Obama avrà con la peggiore crisi finanziaria dagli anni '30, crisi di cui egli ed i finanziatori di Obama portano non poche responsabilità.

In un'intervista con un giornalista del Wall Street Journal, è stato chiesto ad Emanuel come si sarebbe regolata l'amministrazione Obama "con la dirigenza congressuale democratica, che ne ha abbastanza dei baroni della sinistra e della loro agenda," in cui compaiono obiettivi quali i tagli alla spesa per la difesa (in sintonia peraltro con la maggioranza della popolazione) e "cercare un innalzamento delle tasse sull'energia per combattere il riscaldamento globale", senza parlare di quei pazzi scatenati all'interno del Congresso che si baloccano con le riparazioni per l'epoca della schiavitù e giungono persino a simpatizzare con quegli europei che vogliono processare l'amministrazione Bush per crimini di guerra. "Barack Obama è in grado di affrontarli" ha assicurato Emanuel al suo intervistatore. L'amministrazione sarà "pragmatica," e metterà da parte gli estremisti della sinistra.

La squadra per la transizione di Obama è guidata da John Podesta, già capo dello staff in epoca Clinton. Le figure di riferimento nella sua squadra economica sono Robert Rubin e Lawrence Summers, entrambi entusiasti della deregolamentazione che è stata uno dei maggiori fattori nell'attuale crisi finanziaria. Nella carica di Ministro del Tesoro, Rubin ha lavorato a fondo per abolire la legge Glass-Steagall, con cui erano state separate le banche commerciali dalle istituzioni finanziarie che si muovono su mercati ad alto rischio. L'economista Tim Canova ha rilevato come Rubin abbia avuto "un interesse personale nella soppressione della Glass-Steagall." Subito dopo aver lasciato la carica di ministro del tesoro, Rubin era diventato "presidente di Citigroup, un conglomerato finanziario e di servizi che si trovava di fronte alla possibilità di dover liquidare la sua società di assicurazioni... cosa per la quale l'amministrazione Clinton non ha mai intrapreso un'azione legale nei suoi confronti per flagrante violazione della legge Ethics in Government Act."

Rubin è stato sostituito al Tesoro da Summers, il quale ha esercitato il suo mandato per tutta la legislazione ostacolando il regolamento federale sui derivati, quelle "armi di distruzione di massa" (Warren Buffett) che hanno contribuito a spingere il mercato finanziario verso il disastro. Summers si colloca tra "i principali furfanti di questa crisi economica," dice Dean Baker, uno dei pochi economisti ad aver per tempo messo in guardia tutti sulla crisi incipiente. Secondo Baker, mettere la politica finanziaria del paese nelle mani di Rubin e Summers sarebbe "un po' come chiedere aiuto ad Osama Bin Laden per la guerra contro il terrorismo".

La stampa economica ha passato in rassegna i membri del Transition Economic Advisory Board di Obama, che si è riunito il 7 novembre per affrontare la crisi economica. Nel Bloomberg News, Jonathan Weil conclude che "si tratta in gran parte di personaggi a cui dovrebbe essere dato un mandato di comparizione in qualità di testimoni materiali sulla situazione attuale, altro che posti di rilievo nel circuito interno di Obama". Per la metà "sono individui che hanno mantenuto posizioni di fiducia con quelle compagnie, le quali – a diversi livelli – hanno sia truccato le loro carte finanziarie che contribuito a mandare il mondo in un testa-coda economico, o entrambe le cose". E' veramente plausibile che "questi non confonderanno gli interessi della nazione con i loro interessi corporativi?" Weill ci tiene a precisare anche che il capo dello staff Emanuel "è stato dirigente di Freddie Mac tra il 2000 ed il 2001 quando stava commettendo le sue frodi contabili."

Queste sono le azioni concrete, mentre scrivo. La retorica è "cambiamento" e "speranza".

Sanità ed assistenza

La prima preoccupazione per l'amministrazione sarà quella di fermare la crisi finanziaria e la simultanea recessione nell'economia reale. Ma c'è un altro mostro nell'armadio: il sistema sanitario privatizzato e notoriamente inefficiente, che minaccia di risucchiare il budget federale qualora le attuali tendenze dovessero persistere. Vi è una maggioranza di cittadini che da tempo è a favore di un sistema sanitario nazionale, il quale dovrebbe essere molto meno costoso e più efficiente, come indicano alcuni studi comparativi. Già nel 2004, qualsiasi intervento governativo nel sistema sanitario veniva considerato sulla stampa come "politicamente impossibile" e "privo di qualsiasi appoggio politico", volendo dire con questo: fortemente ostacolato dall'industria delle assicurazioni, dalle case farmaceutiche e da altri poteri. Tuttavia, nel 2008, prima Edwards, poi Obama e Clinton, hanno avanzato delle proposte per avvicinarsi a quel modello da tempo visto con favore dalla popolazione. Queste idee hanno ora un "sostegno politico". Ma che cosa è cambiato? Non l'opinione pubblica, che resta sulle sue. E' successo che a partire dal 2008, i maggiori poteri dell'economia, a cominciare dall'industria manifatturiera, sono giunti al convincimento che il sistema sanitario privato li stava seriamente danneggiando. Ecco come la volontà popolare ha trovato il "sostegno politico" che mancava. La strada è ancora lunga, ma questo cambiamento ci dice molto sulla democrazia disfunzionale.

Rapporti Internazionali

A livello internazionale non c'è granché di sostanziale in vista. E quello che si vede non apre grandi aspettative rispetto ad un cambiamento nei confronti della politica Bush durante il secondo mandato, quando si mise da parte il radicale ultranazionalismo coniugato con quell'atteggiamento aggressivo del primo mandato, e vennero esautorati alcuni dei falchi e degli estremi oppositori della democrazia (nei fatti e non a parole sussurrate) come Rumsfeld e Wolfowitz.

Israele-Palestina

Le priorità riguardano soprattutto il Medio Oriente. Sulla situazione in Israele-Palestina, circolano indiscrezioni sulla possibilità che Obama possa prendere le distanze da quell'atteggiamento di rifiuto degli USA che ha impedito un accordo politico per oltre 30 anni, con la rara eccezione del gennaio 2001, prima che Israele silurasse prematuramente l'apertura di promettenti negoziati. Ma la questione è troppo seria per prendere seriamente in considerazione le indiscrezioni. Ho scritto sulle posizioni ufficiali di Obama al riguardo altrove (Perilous Power), e quindi non mi dilungo in questa sede.

Dopo l'elezione di Obama, il presidente israeliano Shimon Peres ha informato la stampa che durante il suo viaggio in Israele in luglio, Obama gli aveva detto di essere rimasto "molto colpito" dalla proposta di pace della Lega Araba, in cui si prevedeva la normalizzazione delle relazioni con Israele in presenza di un ritiro di Israele dai territori occupati – sostanzialmente, quella proposta che da lungo tempo riceve il consenso internazionale e che USA ed Israele hanno unilateralmente bloccato (e che Peres non ha mai accettato, al punto da dire negli ultimi giorni del suo mandato quale primo ministro nel 1996, che uno Stato palestinese non sarebbe mai esistito). Questo potrebbe indurre a pensare ad un significativo mutamento di indirizzo negli USA, se non fosse per la dichiarazione del leader di destra israeliano Binyamin Netanyahu in base alla quale, sempre durante lo stesso viaggio di Obama, questi gli avrebbe detto di essere rimasto "molto colpito" dal piano di Netanyahu per un controllo a tempo indeterminato sui territori occupati.

Il paradosso viene plausibilmente risolto dall'analista politico israeliano Aluf Ben, il quale fa notare che lo scopo principale di Obama sarebbe quello di non creare tensioni e non irritare nessuno. Presumibilmente si è mosso con cortesia, dicendo ai suoi ospiti che le loro proposte erano "molto interessanti" – lasciandoli soddisfatti ma senza promettere alcunché. Comprensibile, ma non ci resta che la sua fervente professione di amore verso Israele e la scarsa considerazione per le preoccupazioni dei Palestinesi.

Iraq

Per quanto riguarda l'Iraq, Obama è stato spesso lodato per la sua "opposizione di principio" alla guerra. In realtà, come egli stesso ha chiarito, la sua opposizione è stata interamente senza principi dall'inizio alla fine. La guerra, ha detto, è "un errore strategico". Quando al Cremlino i critici dell'invasione dell'Afghanistan hanno detto che si trattava di un "errore strategico", in America non si è detto che quella del Cremlino fosse una posizione di principio.

Mentre scrivo, il governo dell'Iraq sembra vicino ad accettare l'Accordo sullo Stato delle Forze (SOFA) con Washington, in cui si prevede una presenza militare USA in Iraq – con riserva, secondo il primo ministro Maliki, il quale ha detto che si trattava del miglior accordo che l'Iraq potesse ottenere e che si trattava di un "forte inizio". Le trattative si sono trascinate, secondo il Washington Post, perché l'Iraq insisteva per "ulteriori ed importanti concessioni, tra cui la definizione del 2011 quale data del ritiro degli USA, invece del temporeggiamento dell'amministrazione Bush, e il rifiuto di una presenza a lungo termine delle basi militari sul suolo iracheno." I dirigenti iracheni "ritengono la definizione di una data certa per il ritiro come una vittoria nel negoziato". Reuters riporta che: Washington "si è a lungo opposta alla definizione di una data per il ritiro delle truppe, ma negli ultimi mesi ha iniziato a cedere," non essendo in grado di sovrastare la resistenza irachena.

Per tutta la durata dei negoziati, la stampa ha sistematicamente ignorato l'ostinazione del governo Maliki, come una sorta di spiacevole ruffianeria verso l'opinione pubblica. Le continue inchieste confermano che in Iraq esiste una vasta maggioranza che si oppone a qualsiasi presenza militare USA e ritiene che le forze USA peggiorino la situazione, compresa "l'insurrezione". Questo giudizio è suffragato, tra gli altri, da Steven Simon, specialista del Medio Oriente ed analista della sicurezza, che scrive sul Foreign Affairs che la strategia contro-insurrezione di Petraeus sta "alimentando le tre forze che da sempre hanno minacciato la stabilità degli stati del Medio Oriente: il tribalismo, i signori della guerra, il settarismo. Gli Stati che hanno fallito nel controllo di queste tre forze sono diventati del tutto ingovernabili e questo è il destino che l'insurrezione sta preparando per l'Iraq. Una strategia intesa a ridurre le vittime nel breve termine indebolirà ineluttabilmente le prospettive per una coesione di lunga durata in Iraq" Può portare ad uno "stato forte e centralizzato nelle mani di una giunta militare che ricorderebbe il regime Baathista rovesciato da Washington nel 2003," oppure "qualcosa di molto simile ai protettorati dell'impero inglese nel Medio Oriente nella prima metà del XX secolo" in cui il "club dei "patron" nella capitale distribuirebbe i beni alle tribù attraverso condotti di favore." Nel sistema di Petraeus, "I militari USA stanno giocando il ruolo di patron – creando una dipendenza poco salutare ed aprendo un solco pericoloso tra le tribù e lo stato iracheno," minando in prospettiva le basi per un "Iraq stabile ed unitario".

I recenti successi iracheni giungono al culmine di un lungo percorso di resistenza alle richieste degli invasori USA. Washington ha fatto con le unghie e con i denti per non far fare le elezioni, ma è stata costretta alla fine a cedere di fronte alla richiesta popolare di democrazia, simbolizzata dall'Ayatollah Sistani. L'amministrazione Bush è allora riuscita a far eleggere un suo uomo a primo ministro ed ha cercato di controllare il governo in vari modi, mentre si dava da fare per costruire gigantesche basi militari in tutto il paese ed una "ambasciata" che è una città virtuale all'interno di Baghdad – il tutto con i fondi del Congresso in mano ai Democratici. Se gli invasori dovessero tener fede al SOFA che sono stati costretti ad accettare, si tratterebbe di un trionfo significativo della resistenza non violenta. Gli insorti possono essere uccisi, ma la resistenza di massa non violenta è molto più dura da reprimere.

All'interno della classe politica e sui media si è assunto di riflesso che Washington ha il diritto di porre dei termini per il SOFA. Un tale diritto non venne accordato ai russi invasori dell'Afghanistan, o a chiunque che non siano gli USA ed i suoi clientes. Per gli altri, noi adottiamo giustamente il principio che gli invasori non hanno diritti, ma solo responsabilità, compresa quella di rispettare la volontà delle vittime e di pagare a caro prezzo le riparazioni di guerra per i loro crimini. In questo caso, i crimini comprendono il grande appoggio dato a Saddam Hussein per tutte le sue peggiori atrocità sotto lo sguardo di Reagan, poi il massacro degli Sciiti sotto gli occhi dell'esercito USA durante la prima Guerra del Golfo, le sanzioni di Clinton definite "da genocidio" da illustri diplomatici internazionali che hanno rassegnato le loro dimissioni per protesta dopo averle gestite, sanzioni che hanno aiutato Saddam ad evitare il destino di altri gangster come lui il cui potere sanguinario gli USA e la Gran Bretagna hanno sostenuto fino alla fine, e poi la guerra con le sue orrende conseguenze. Nessuna di queste riflessioni può però essere espressa in una società perbenista.

Il portavoce del governo iracheno ha detto che il tentativo del SOFA è una "sfida alla visione del presidente eletto degli USA Barack Obama." La visione di Obama è rimasta infatti alquanto nel vago, ma presumibilmente egli cercherà di incontrare le richieste del governo iracheno. Se così sarà, sarebbero necessarie delle modifiche nei piani USA per il controllo delle enorme risorse petrolifere dell'Iraq e nel rafforzamento del suo dominio sulla più grande regione petrolifera del mondo.

Afghanistan, Pakistan...

Nella annunciata "visione" di Obama vi è lo spostamento di forze dall'Iraq all'Afghanistan. Non è mancata al riguardo la lezione da parte del Washington Post: "Mentre gli Stati Uniti hanno interesse a prevenire l'insurrezione dei Talebani in Afghanistan, l'importanza strategica del paese sbiadisce a fronte di quella dell'Iraq, che giace nel centro geopolitico del Medio Oriente e che contiene alcune delle più grandi riserve di petrolio al mondo." E mentre Washington è stata costretta a riconoscere le richieste dell'Iraq, sempre di più finiscono sugli scaffali le storie sulla "promozione della democrazia" ed altre favole auto-gratificanti per dare spazio al riconoscimento di quella verità che è stata del tutto ovvia per tutti tranne che per la maggior parte degli ideologi dottrinari: e cioè che gli USA non avrebbero mai invaso l'Iraq se questo avesse esportato asparagi e pomodori e se le maggiori risorse del mondo si trovassero nel Pacifico meridionale.

Anche il comando NATO sta iniziando a riconoscere pubblicamente la realtà. Nel giugno 2007, il segretario generale della NATO Jaap de Hoop Scheffer ha informato i paesi membri durante un meeting che "le truppe della NATO devono vigilare sugli oleo-gasdotti che sono diretti ad occidente," e più in generale devono proteggere le vie del mare usate dalle petroliere e da altre "infrastrutture cruciali" del sistema energetico. Ecco qual è il vero significato della tanto favoleggiata "responsabilità per proteggere." Presumibilmente il compito di protezione comprende anche il progettato gasdotto TAPI da 7,6 miliardi di dollari che dovrebbe portare gas naturale dal Turkmenistan al Pakistan e all'India, correndo attraverso la provincia di Kandahar nell'Afghanistan, dove sono dislocate le truppe canadesi. Lo scopo è quello di "bloccare un gasdotto alternativo che porterebbe gas in Pakistan ed in India proveniente dall'Iran" e di "ridurre il domino russo sull'export di energia nell'Asia centrale"; questa è la tesi riportata dal Toronto Globe & Mail, che mette in evidenza alcuni dei possibili contorni del nuovo "Grande Gioco".

Obama ha appoggiato con determinazione il piano un tempo segreto dell'amministrazione Bush che prevedeva di attaccare sospetti dirigenti di al-Qaeda in paesi che Washington non aveva (ancora) invaso e che è stato reso pubblico dal New York Times poco dopo le elezioni. Il piano è entrato in azione ancora il 26 ottobre, quando le forze USA in Iraq hanno fatto dei raid sulla Siria, uccidendo 8 civili, col pretesto di catturare un dirigente di al-Qaeda. Washington non aveva notificato l'operazione né al primo ministro iracheno Maliki né al presidente Talabani, entrambi i quali hanno rapporti relativamente amichevoli con la Siria, che ha accolto un milione e mezzo di profughi iracheni e che si oppone aspramente ad al-Qaeda. La Siria ha protestato, dichiarando, credibilmente, che se le fosse stato notificato, avrebbe rapidamente arrestato questo nemico. Secondo Asia Times, i dirigenti iracheni erano furiosi ed hanno inasprito la loro posizione nel SOFA, insistendo perché si mettesse fine all'uso del territorio iracheno come base per attaccare i paesi vicini.

Il raid sulla Siria ha sollevato una dura reazione nel mondo arabo. Nei giornali filo-governativi, l'amministrazione Bush è stata denunciata per prolungare il suo "odioso lascito"( Libano), mentre la Siria veniva spinta a "marciare in direzione della riconciliazione" e l' America ad "astenersi dalle espressioni di odio, arroganza e di assassinio di innocenti" (Kuwait). Per tutta la regione, è stata un'altra prova di ciò che la stampa saudita sotto il controllo del governo ha condannato come "non diplomazia alla ricerca della pace, ma follia alla ricerca della guerra"
Obama è rimasto silente. E così gli altri Democratici. Il politologo Stephen Zunes ha contattato tutti gli uffici dei democratici alla Camera ed alla Commissione per gli Affari Esteri del Senato, ma non è riuscito a trovare una sola espressione critica sul raid nei cieli siriani, partito dall'Iraq occupato.

C'è da pensare che Obama abbia accettato pure la ancor più espansionista dottrina Bush, in base alla quale gli USA non solo hanno il diritto di invadere paesi a piacimento (a meno che non sia "un granchio", troppo costoso per noi), ma anche di attaccare altri paesi che Washington ritiene stiano sostenendo la resistenza all'aggressione. In particolare, sembra che Obama non abbia criticato i raid degli aerei Predator che hanno ucciso molti civili in Pakistan.

Questi raid ovviamente hanno delle conseguenze: la gente ha quella strana caratteristica di protestare per il massacro di familiari ed amici. E' in corso nell'area tribale di Bajaur in Pakistan, al confine con l'Afghanistan, una crudele mini-guerra. La BBC parla di distruzioni su vasta scala, con intensi combattimenti ed aggiunge inoltre che "Molti a Bajaur fanno risalire la scintilla dell'insurrezione ad un missile USA che avrebbe colpito una madrassa, un monastero islamico, nel novembre 2006, con l'uccisione di circa 80 persone". L'attacco alla scuola, che ha ucciso tra le 80 e le 85 persone, è stato riportato sulla principale stampa pakistana dal fisico Pervez Hoodbhoy, dissidente molto rispettato, ma la notizia è stata del tutto ignorata sulla stampa statunitense. Gli eventi assumono spesso un altro aspetto all'altro capo del club.

Hoodbhoy fa notare che il classico paesaggio visibile dopo un simile attacco "sono case abbattute, bambini morti e mutilati, ed una popolazione sempre più numerosa che vuole vendicarsi contro il Pakistan e gli USA". Oggi Bajaur è la conferma di un disegno ben noto.
Il 3 novembre, il Generale Petraeus, il nuovo capo nominato al Comando Centrale USA per il Medio Oriente, ha per primo incontrato il presidente pakistano Asif Ali Zardari, il capo di stato maggiore dell'esercito il Generale Ashfaq Parvez Kayani, ed altri alti ufficiali. La loro prima preoccupazione sono stati gli attacchi missilistici USA sul territorio pakistano, che erano di molto aumentati nelle settimane precedenti. Zardari ha informato Petraeus che "I continui attacchi aerei sul territorio pakistano portano alla perdita di vite preziose ed alla distruzione di beni, sono controproducenti e difficili da spiegare da parte di un governo democraticamente eletto". Ed ha aggiunto che il suo governo sta subendo "una forte pressione perché reagisca più aggressivamente" agli attacchi. I quali potrebbero portare ad "un colpo di frusta contro gli USA" che sono già diventati impopolari in Pakistan.

Petraeus ha risposto di aver recepito il messaggio e che "terremo presente le obiezioni del Pakistan" quando si sta per attaccare il paese. Una questione di necessità, come negarlo? Visto che l'80% dei rifornimenti per la guerra in Afghanistan passa attraverso il Pakistan.

Il Pakistan si è dotato di armi nucleari, al di fuori del Trattato di Non Proliferazione Nucleare (NPT), grazie in gran parte a Ronald Reagan, che fingeva di non vedere quello che il suo alleato stava facendo. Questo era uno degli elementi del "generoso sostegno" dato al "vendicativo e spietato" dittatore Zia ul-Haq, il cui governo ha avuto "sulla società pakistana un effetto dannosissimo e di lunga durata che si protrae fino ai giorni nostri," scrive lo stimato analista Ahmed Rashid. Con il fermo sostegno di Reagan, Zia ha potuto imporre "sulla popolazione uno stato ideologicamente islamico." Sono queste le radici prossime a molti dei "problemi di oggi – l'attivismo militante dei partiti religiosi, il proliferare delle madrasse e dei gruppi estremisti, la diffusione della droga e della cultura del Kalashnikov e l'aumento della violenza settaria".

Il reaganismo ha anche "riorganizzato l'[Inter-Services Intelligence Directorate, ISI] in una formidabile agenzia di intelligence che ha gestito tutto il processo politico in Pakistan ed al tempo stesso promuoveva le ribellioni islamiche nel Kashmir ed in Asia centrale," scrive ancora Rashid. "Questa jihad globale lanciata da Zia e Reagan ha sparso i semi da cui è nata al-Qaeda ed ha fatto del Pakistan il centro mondiale del jihadismo per i prossimi vent'anni." Nel frattempo, i successori immediati di Reagan hanno lasciato l'Afghanistan nelle mani dei più crudeli jihadisti, per poi abbandonarlo nelle mani dei signori della guerra sotto la supervisione di Rumsfeld. La temuta ISI continua intanto a giocare su due fronti, sostenendo da una parte i Talebani risorti e dall'altra soddisfacendo le richieste che provengono dagli USA.

Secondo alcuni ufficiali veterani di entrambi i paesi, gli USA ed il Pakistan avrebbero raggiunto un "tacito accordo nel settembre" [2008] su una politica del non-chiedere-non-dire che consente ai droni Predator di attaccare sospetti obiettivi terroristici". "In base a tale accordo il governo USA si rifiuterebbe di rendere pubblici gli attacchi, mentre il governo pakistano continuerebbe a dolersi noiosamente di questi attacchi per le loro sensibili conseguenze politiche."

Ancora una volta i problemi li creano quegli "emarginati ignoranti ed importuni" che non gradiscono di essere bombardati da un nemico sempre più odioso che viene dall'altro capo del mondo.

Il giorno prima della rivelazione di questo "tacito accordo", un bombardamento suicida nelle aree tribali in guerra aveva ucciso 8 soldati pachistani, come ritorsione per un attacco di un Predator USA che aveva ucciso 20 persone, compresi due dirigenti Talebani. Il parlamento pachistano si è orientato per aprire il dialogo con i Talebani, consentendo così al ministro degli esteri Shah Mehmood Qureshi di dichiarare che "vi è una crescente consapevolezza che l'uso della forza da sola non porta a nessun risultato".

Il primo messaggio del presidente afgano Hamid Karzai al presidente eletto Obama è stato molto simile a quelli inviati al generale Petraeus dai dirigenti pachistani: "si metta fine ai raid aerei che comportano il rischio di morti tra i civili." Il suo messaggio è stato mandato poco dopo un bombardamento delle truppe alleate sulla provincia di Kandahar, dove hanno seminato la morte in una festa di matrimonio, con 40 persone uccise. Non vi è alcun indizio sul fatto che questo messaggio sia stato messo sul "tavolo di lavoro" del presidente eletto.

Il Financial Times scrive che il comando britannico ha avvertito che non vi è nessuna soluzione militare per il conflitto in Afghanistan e che sono necessari negoziati con i Talebani, rischiando di aprire una crepa nei rapporti con gli USA. Il corrispondente Jason Burke, che ha una lunga esperienza come inviato nella regione, scrive che "i talebani sono stati invitati a negoziati segreti per giungere alla fine del conflitto in Afghanistan all'interno di un ampio e plurale "processo di pace" sponsorizzato dall'Arabia Saudita con l'appoggio della Gran Bretagna".

Alcuni pacifisti afgani hanno delle riserve su questo tipo di approccio, preferendo invece una soluzione senza interferenze straniere. Una rete sempre più forte di attivisti chiede negoziati per la riconciliazione con i Talebani in una Jirga Nazionale di Pace, una sorta di grande assemblea degli Afgani, costituitasi nel maggio 2008. In un meeting di sostegno alla Jirga, 3.000 intellettuali e politici afgani, soprattutto di etnia Pashtun, hanno criticato "la campagna militare internazionale contro i militanti islamici in Afghanistan ed hanno lanciato un appello per il dialogo e la fine dei combattimenti," (fonte AFP).

Il presidente ad interim della Jirga Nazionale di Pace, Bakhtar Aminzai, "ha detto nella sessione di apertura che il conflitto in corso non può essere risolto con mezzi militari e che solo le trattative possono portare ad una soluzione. Ha lanciato un appello al governo perché faccia i suoi passi verso i negoziati con i Talebani e con i gruppi di Hizb-i-Islam." Quest'ultimo è il partito degli estremisti radicali islamisti guidato dal signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar, uno dei favoriti di Reagan, responsabile di molte e terribili atrocità, che ora viene dato per un sostenitore chiave in parlamento del governo Karzai con pressioni per una forma di ri-talebanizzazione.

Aminzai ha detto inoltre che "E' necessario fare pressioni sul governo afgano e sulla comunità internazionale perché si trovi una soluzione senza usare le armi". Un portavoce ha aggiunto che "Noi siamo contrari alla politica occidentale in Afghanistan. Gli occidentali dovrebbero seppellire le loro armi e concentrarsi sulla diplomazia e sullo sviluppo economico." Un dirigente di Risveglio Giovanile dell'Afghanistan, un noto gruppo contro la guerra, dice che bisogna mettere fine all'"Afganicidio – alla uccisione dell'Afghanistan." In una dichiarazione unitaria con le organizzazioni pacifiste tedesche, la Jirga Nazionale di Pace, in quanto rappresentante della "grande maggioranza del popolo afgano che è stanco della guerra" ha lanciato un appello per la fine dell'escalation militare e per l'inizio di un processo di pace.

Il vice-direttore dell'ombrello di ONG presenti nel paese dice che sulle circa 1400 ONG registrate, quasi 1.100 sono dedite ad operazioni di sostegno alla popolazione: gruppi di donne, gruppi di giovani ed altri, molti dei quali presenti nella Jirga di Pace.

Sebbene invertire la tendenza bellica in Afghanistan sia un processo difficoltoso, non mancano alcuni dati fonte di suggerimenti. Secondo un'inchiesta canadese che ha conquistato i titoli sui media, gli Afgani sarebbero favorevoli alla presenza delle truppe canadesi e di altri paesi stranieri. Altre ricerche danno dati che fanno riflettere. Solo il 20% "ritiene che i Talebani prevarranno una volta che le truppe straniere se ne saranno andate". I tre quarti sono favorevoli a negoziati tra il governo Garzai ed i Talebani e più della metà sono a favore di un governo di coalizione. La grande maggioranza degli afgani quindi non condivide la strategia di USA e NATO volta ad una ulteriore militarizzazione del conflitto, e sembra credere che la pace sia possibile con un cambiamento di strategia fatta con mezzi pacifici. Sebbene agli intervistati non sia stata posta come domanda, è lecito supporre che una presenza straniera sarebbe tollerabile solo per aiuti e per la ricostruzione.

Uno studio sulla fanteria talebana, eseguito dal Toronto Globe & Mail, con l'avvertenza che non si tratta di una indagine del tutto scientifica, conduce comunque ad interessanti approfondimenti. Tutti i soldati sono afgani di etnia pashtun della provincia di Kandahar. Si definiscono Mujahaddin, secondo l'antica tradizione di combattenti contro il nemico invasore. Circa un terzo di loro ha perso un familiare nei bombardamenti aerei degli ultimi anni. Sono in pochi a dire che combattono per una jihad globale o che si rifanno al leader talebano Mullah Omar. La maggior parte di loro dice di combattere per avere un governo islamico e non per un leader. Ancora una volta ne viene fuori un quadro che suggerisce come esistano le possibilità per un accordo di pace, senza interferenze estere.

Una promettente prospettiva in questa direzione viene fornita da Sir Rodric Braithwaite, uno specialista dell'Afghanistan che è stato ambasciatore britannico a Mosca durante il periodo cruciale del 1988-92 quando i Russi si ritirarono (e l'URSS collassò), per poi diventare presidente del British Joint Intelligence Committee. In una recente visita, Braithwaite ha parlato con giornalisti afgani, con ex-Mujahiddin, con professionisti, con gente che lavora per la "coalizione" voluta dagli USA – insomma con i "naturali sostenitori degli appelli per riportare la pace e la ricostruzione". Sul Financial Times, egli scrive che vi è un diffuso sentimento di "disprezzo verso il presidente Hamid Karzai," considerato come un fantoccio messo lì dalle forze straniere. Sembra aver lasciato invece un buon ricordo "Mohammad Najibullah, l'ultimo presidente comunista che aveva cercato di riconciliare la nazione dentro uno stato islamico, ma che finì massacrato dai Talebani nel 1996: il DVD di questi incontri è andato esaurito. Le cose, dicono gli interlocutori di Braithwaite, "andavano meglio sotto i Sovietici. Kabul era sicura, le donne lavoravano, i sovietici costruivano fabbriche, strade, scuole ed ospedali, i bambini russi giocavano tranquillamente per le strade. I soldati russi combattevano coraggiosamente sul campo come veri guerrieri, invece di uccidere donne e bambini dall'alto. Persino i Talebani non erano così male: erano buoni mussulmani, mantenevano l'ordine e rispettavano le donne secondo i loro costumi. Questi miti possono non riflettere la realtà storica, ma danno la misura della disillusione che serpeggia verso la coalizione e le sue politiche".

Gli specialisti dell'area spingono perché la strategia degli USA cambi di segno, e passi dall'aumento di truppe ed attacchi sul Pakistan verso "un grande accordo diplomatico – che forgi un compromesso con i ribelli e si vada verso una risoluzione delle rivalità regionali e della sicurezza" (Barnett Rubin ed Ahmed Rashid nel Foreign Affairs, Nov.-Dic. 2008). Si avverte che l'attuale priorità militare "e la risposta terroristica che ne consegue" potrebbero portare al collasso del Pakistan in quanto potenza nucleare, con pesanti conseguenze. Si sollecita la nuova amministrazione USA "a metter fine alle dinamiche sempre più distruttive del Grande Gioco in quella regione" tramite negoziati che portino al riconoscimento degli interessi dei partiti referenti per l'Afghanistan come pure per il Pakistan e l'Iran, ma anche dell'India, della Cina e della Russia, paesi i quali "nutrono delle riserve nei confronti delle basi NATO all'interno della loro sfera di influenza" e che tengano in considerazione le minacce "insite nell'azione degli Stati Uniti e della NATO" al pari delle minacce portate da al-Qaeda e dai Talebani. Lo scopo immediato dovrebbe essere quello di "ridurre il livello di violenza nella regione e condurre la comunità mondiale verso un accordo leale con obiettivi a lungo termine," consentendo così agli afgani di confrontarsi con i loro problemi interni in modo pacifico. Il nuovo presidente degli Stati Uniti deve mettere fine agli "istinti di vittoria di Washington quale unica soluzione a tutti i problemi, così come alla riluttanza degli Stati Uniti a coinvolgere in un'azione diplomatica sia i suoi competitori che i suoi oppositori."

Pare dunque che esistano delle possibili alternative ala escalation del ciclo di violenze, ma se ne è fatto poco accenno durante la campagna elettorale o nei commenti politici. L'Afghanistan ed il Pakistan non comparivano nemmeno tra i temi di politica estera sul sito della campagna di Obama.

Iran

L'Iran, invece, ricopre uno spazio preminente – sebbene non sia confrontabile con l'ampio spazio dato al sostegno ad Israele; i Palestinesi non sono menzionati, salvo un vago riferimento ad una non meglio specificata proposta di 2 popoli in 2 Stati. Nei confronti dell'Iran, Obama è per un rapporto diplomatico diretto e duro "senza pre-condizioni" al fine di "fare pressioni direttamente sull'Iran perché cambi quella sua politica fonte di guai," vale a dire il suo perseguire un programma nucleare ed il suo appoggio al terrorismo (con presumibile riferimento al sostegno dell'Iran ad Hamas ed Hezbollah). Se l'Iran abbandonasse la sua pericolosa politica, gli USA potrebbero ristabilire normali rapporti diplomatici ed economici. "Se l'Iran continua nella sua politica irresponsabile, inaspriremo il nostro embargo e l'isolamento politico del paese". Ed Obama ha fatto sapere alla lobby israeliana che "farò ogni cosa in mio potere per impedire che l'Iran si doti di armi nucleari" (fonte AIPAC) – al costo di una guerra nucleare, sembra di capire da quello che ha detto.

Inoltre Obama rafforzerà i vincoli del Trattato di Non Proliferazione (NPT) "di modo che paesi come la Corea del Nord e l'Iran che hanno violato le regole siano automaticamente soggetti a forti sanzioni internazionali." Non vi è menzione del documento "strettamente riservato" dell'intelligence USA da cui si evince che l'Iran non avrebbe un programma di costruzione di armi nucleari per i prossimi 5 anni, a differenza di alleati degli USA come Israele, Pakistan ed India, i quali mantengono un ampio programma di armi nucleari in violazione del NPT e col diretto consenso e sostegno degli USA, ma anche loro non menzionati nel sito del neo-presidente.

L'ultimo riferimento all'Iran avviene nel contesto del forte sostegno di Obama al "diritto all'autodifesa" di Israele ed al suo "diritto di proteggere i suoi abitanti". Questo impegno di Obama è già stato messo in evidenza dal suo appoggio ad "una risoluzione del Senato contro il coinvolgimento dell'Iran e della Siria nella guerra, in cui si ribadiva che non bisognava fare pressioni su Israele per un cessate il fuoco senza tenere conto della minaccia dei missili di Hezbollah." Il riferimento è alla invasione del Libano ad opera di Israele col sostegno degli USA nel 2006, sulla base di pretesti difficilmente credibili alla luce della prassi quotidiana di Israele. Quella invasione, la quinta ad opera di Israele, è costata la morte ad oltre 1000 Libanesi ed ha distrutto ancora una volta gran parte del sud del paese e interi quartieri della capitale Beirut.

Questa è l'unica menzione che si fa sul Libano tra i temi di politica estera sul sito di Obama. Evidentemente, il Libano non ha diritto all'autodifesa. Infatti chi potrebbe mai far valere il suo diritto all'autodifesa di fronte agli USA o ai suoi clientes?

Neanche l'Iran può avanzare un tale diritto. Tra gli esperti, compresi i falchi senzienti, vi è la convinzione che se l'Iran sta perseguendo un programma di armamento nucleare, lo fa per scopi di deterrenza. A difesa dell'interesse nazionale, l'ex-ispettore della CIA per le armi David Kay argomenta che l'Iran potrebbe muoversi verso una "capacità di armi nucleari," col "fine strategico" di contrastare la minaccia USA che appare "reale agli occhi di Teheran," per alcune buone ragioni che egli passa in rassegna. Kay sostiene che "forse chi più agita le acque nella questione iraniana sono proprio gli USA con la loro corta memoria ed il loro approccio diplomatico" Wayne White, ex-vice direttore del Dipartimento di intelligence per il vicino oriente e l'Asia meridionale, scarta la possibilità che il capo supremo Khamenei e l'elite clericale, che detengono il potere in Iran, possano sprecare "il loro patrimonio finanziario" ed "i giganteschi imperi economici" che si sono creati per se stessi "in qualche donchisciottesco attacco con armi nucleari contro Israele," ammesso che ne abbiano. Conclude col dire che tale possibilità è virtualmente senza fondamento.

White si trova d'accordo nel dire che l'Iran potrebbe puntare alla capacità nucleare (che non è la stessa cosa di disporre di armi nucleari) a scopi di deterrenza. Prosegue nel dire che l'Iran potrebbe anche tener presente quello che accadde a Saddam Hussein, il quale pur non avendo un programma nucleare quando Israele gli bombardò il reattore di Osiraq nel 1981, iniziò realmente il suo programma usando le scorie nucleari del bombardamento subito. All'epoca, White era un'analista dell'Iraq per l'intelligence del Dipartimento di Stato, con accesso ad una ricca documentazione. Il suo lavoro di analisi aveva portato all'intelligence USA la conferma sulla base di documenti del tutto credibili, che al di là dei detrattori dell'Iraq, il bombardamento di Israele non aveva terminato il programma nucleare di Saddam bensì lo aveva fatto iniziare, con avvio della ricerca sulle armi nucleari. White ed altri esperti fanno notare che si potrebbe ripetere la medesima situazione in Iran. La violenza porta coerentemente ad una reazione di maggiore violenza.

Tali questioni sono ben note tra coloro che sanno. Nel 2000, Reuel Marc Gerecht, già nella CIA per il Medio Oriente nonché uno dei maggiori esperti sull'Iran per i neoconsevatori ha scritto che:

Teheran punta sicuramente alle armi nucleari e le sue ragioni non sono illogiche. L'Iran venne costretto alla resa dalle armi a gas nella prima Guerra Persiana del Golfo; il Pakistan, paese del radicalismo sunnita confinante a sud-est con l'Iran, ha le armi nucleari; Saddam Hussein, con i suoi missili Scud e le sue ambizioni di armi di distruzione di massa è lì ai confini l'Arabia Saudita, il più ardente rivale religioso dell'Iran, dispone di missili a lunga gittata; la Russia, storicamente uno dei nemici più temuti dell'Iran, sta riorganizzando il suo dominio nel Caucaso; ed Israele potrebbe naturalmente fare a pezzi la Repubblica Islamica. Essendo stato sopraffatto da un Iraq tecnologicamente superiore con la morte di quasi mezzo milione di persiani, l'Iran sa molto bene cosa significhi non poter disporre di strumenti di deterrenza. Infatti gli iraniani possiedono un fattore essenziale nella strategia della deterrenza: il buon senso. Teheran o Isfahan ridotte in cenere sarebbero la distruzione dell'animo persiano, cosa a cui tiene profondamente anche il clero più oltranzista. Finché gli iraniani saranno coscienti che sia gli USA che Israele o qualcun altro nella regione possano compiere rappresaglie contro di loro, non faranno niente di avventato.

Gerecht comprende anche molto bene il reale "problema di sicurezza" posto dalle armi nucleari iraniane, qualora dovessero averle:
Una Repubblica Islamica con armamento nucleare darebbe scacco, o forse scacco matto, allo spazio di manovra degli Stati Uniti nel Golfo Persico. Senza dubbio ci penseremmo a lungo prima di rispondere ad un'azione terroristica o ad un'azione militare iraniana, se Teheran possedesse le bombe ed i missili per reagire. Durante la conduzione della seconda Guerra del Golfo, i circoli clericali al potere a Teheran ed a Qom hanno abbozzato un dibattito sulle armi nucleari. I mullah... erano d'accordo: se Saddam Hussein avesse avuto le armi nucleari gli Americani non lo avrebbero sfidato. Per la "sinistra" e per la "destra", questi armamenti sono la garanzia definitiva per la difesa dell'Iran, della sua rivoluzione, della sua indipendenza quale grande potenza regionale.

Con le appropriate traduzioni del termine dottrinario "terrorismo iraniano," le preoccupazioni di Gerecht colgono realisticamente la minaccia proveniente da un Iran con una capacità deterrente (un'azione militare iraniana è ipotesi alquanto remota).

Benché venga in genere non tenuta in considerazione o addirittura considerata irrilevante ai fini della costituzione della politica estera del paese, l'opinione pubblica americana è molto vicina a quella dei seri analisti ed a quella mondiale. Moltissimi americani si oppongono alle minacce verso l'Iran, rifiutano la posizione di Bush ed Obama che porta gli Stati Uniti ad essere uno stato fuorilegge, che viola la Carta delle Nazioni Unite, in cui si impedisce l'uso della forza. L'opinione pubblica è unita con la maggioranza degli Stati del mondo nel sostenere il diritto dell'Iran, quale firmatario del NPT, ad arricchire il suo uranio a scopi energetici nucleari (che poi è la stessa cosa sostenuta da Cheney, Rumsfeld, Wolfowitz, Kissinger ed altri quando l'Iran era governato dal tiranno imposto dalla sovversione anglo-americana). Ma ancor più importante è il fatto che l'opinione popolare è a favore della creazione di una zona militarmente denuclearizzata nel Medio Oriente, allo scopo di mitigare e forse eliminare questa crescente minaccia.

L'influenza popolare

Quanto fin qui detto ci suggerisce un'interessante riflessione sperimentale. Quale sarebbe il contenuto del "marchio Obama" se il popolo dovesse diventare "partecipe" delle scelte politiche, anziché solo "attivista spettatore"? E' un esperimento che vale la pena intentare e ci sono buone ragioni per credere che potrebbe dare esiti più proficui per un mondo più sano e migliore.

Noam Chomsky

25 novembre 2008


Articolo ripreso da ZNet. Originale in inglese: http://www.zcommunications.org/znet/viewArticle/19749

Traduzione a cura di FdCA-Ufficio Relazioni Internazionali

This page can be viewed in
English Italiano Deutsch
© 2005-2024 Anarkismo.net. Unless otherwise stated by the author, all content is free for non-commercial reuse, reprint, and rebroadcast, on the net and elsewhere. Opinions are those of the contributors and are not necessarily endorsed by Anarkismo.net. [ Disclaimer | Privacy ]