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La situazione economica internazionale

category internazionale | economia | documento politico author Friday May 13, 2011 18:40author by Federazione dei Comunisti Anarchici - FdCAauthor email fdca at fdca dot it Report this post to the editors
La crisi è un momento dello sviluppo capitalistico, una fase che può essere superata solo con profonde ristrutturazioni e riorganizzazioni che modificano parametri e strutture (modificazione della composizione tecnica e organica, svalorizzazione). Non è crollo inteso come arresto, solo un arretramento dello sviluppo, o meglio di determinate aree, e apre un periodo di transizione in cui l'instabilità economica e sociale travolge la staticità comportamentale dei soggetti, anche perché modifica in profondità le condizioni sociali. [English]
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8° Congresso Nazionale della Federazione dei Comunisti Anarchici

Fano, 31 ottobre/1 novembre 2010

La situazione economica internazionale


1. La crisi

Il 2007 è l'anno in cui il modello di sviluppo economico "neo liberista", iniziato negli anni '80, entra irrimediabilmente in crisi. E' un effetto domino: la bolla immobiliare esplode, i mutui delle fasce a reddito incerto non vengono rimborsati, i prezzi delle case risultano eccessivi, i prestiti delle banche risultano ampli, la solvibilità delle stesse messa in discussione, le loro quotazioni azionarie precipitano in pochissimi giorni. Tutta la struttura del credito subisce un tracollo. In un'economia monetaria della produzione (1), le banche non sono un settore tra altri, sono il perno della circolazione delle merci e della moneta.

Il capitalismo è D-M-D (2), il credito anticipa, fluidifica, amplia questo ciclo. Una stasi ha effetti dirompenti in tutti i settori produttivi. Il crollo bancario diventa dunque immediatamente crisi economica, caduta del PIL, sovrapproduzione di beni che non trovano acquirenti, interruzione nella produzione, disoccupazione.

Il mercato implode non riuscendo a riprodurre gli scambi tra contraenti. Deve intervenire la Banca Centrale, cioè il prestatore in ultima istanza (3), o in prima (4), inondando di liquidità la circolazione, cioè stampando moneta cartacea e garantendo con segni di moneta il circuito bancario.

Ma non è sufficiente: il governo deve operare per garantire le imprese, sostenere con credito, acquistare i titoli tossici, anche nazionalizzarle, cioè entrare come socio di maggioranza.

2. Gli USA

La crisi colpisce gli USA, il perno del sistema-mondo, il centro dell'economia mondiale e ha una effetto "valanga" su tutte gli Stati che ne risultano travolti, un effetto domino generalizzato.

Uno spettro si affaccia: la crisi del '29; ma viene evitata perché il sistema è molto più complesso e differenziato; le singole articolazioni attenuano lo tsunami, lo deviano, lo stemperano, lo prolungano nel tempo e spazio. La crisi c'è ma viene diluita, stemperata, rimandata, perché l'effetto valanga risulti attenuato.

Il debito pubblico fa da trincea, ha un effetto freno, anche se l'economia non riesce a uscire dalla stagnazione dopo 3 anni. Il deficit è 11%, il 13%, il 12%, il debito si avvicina al 100% del PIL.

Gli USA spendono di più della II Guerra Mondiale, ma dopo 11 trimestri di stasi la Fed è pronta ancora a immettere liquidità in dose sostenuta. Ma questo non basta, si interviene sul cambio, si riduce il prezzo del dollaro, lo si svaluta per dare spazio all'esportazione, ma anche per ridurre il peso del debito con il resto del mondo.

Disponendo della moneta dei pagamenti internazionali e nelle riserve, gli Usa spostano i loro problemi sugli altri paesi, impongono il loro debito agli altri, cioè lo riducono svalutandolo.

Il nuovo imperialismo non esporta capitali, ma esporta debiti, cioè ha la capacità di non pagarli, perché li rimanda o ne diminuisce il valore. Uno scenario già visto nel 1985, quando all'Hotel Plaza si svalutò il dollaro sullo yen del 50% e del 25% sulle monete europee in breve periodo.

Oggi ci si riprova e l'instabilità dei cambi segnala il riorganizzare dei poteri nel sistema-mondo: una fase di concorrenza spinta, di contrasti aspri per ridefinire le gerarchie economiche e per perpetuare la supremazia americana che non si limita alle guerre economiche, ma utilizzerà maggiormente la forza militare nelle zone di instabilità.

Il prezzo di un'oncia d'oro in poche settimane aumenta del 30%, il bene rifugio per eccellenza, quello che non è difficile rivendere, un'ancora in una fase di instabilità dilagante.

3. La Cina

Ma la Cina non è il Giappone che ha perso la guerra. E non ha firmato nessuna clausola segreta, quindi dispone di autonomia nella politica economica; non è un semplice vassallo che può essere richiamato al rispetto delle regole dell'egemonia.

Quindi lo scontro sarà aspro ma avrà tempi lunghi con fasi alternanti. Anche perché il "socialismo di mercato" ha operato come controtendenza alla crisi economica delle aree metropolitane. Bloccatasi la crescita dell'esportazioni, o meglio fermatosi il tasso di incremento, la Cina ha sviluppato una politica keynesiana di investimenti su infrastrutture, di ristrutturazione dei processi lavorativi, di ampliamento dei settori merceologici puntando a beni innovativi, continuando a potenziare la scuola e la ricerca, ma anche all'inserimento legislativo di iniziali diritti lavorativi.

La crescita della domanda interna vale per continuare a crescere a tassi del 10%, per essere la seconda economia mondiale come dimensione del PIL dopo gli USA, diventando il traino di una ripresa della crescita dell'economia-mondo nell'anno in corso (3%), con acquisti di materie prime, di petrolio, di beni d'investimenti in ogni zona, in tutti i continenti.

La Cina è diventato il primo produttore automobilistico e primo venditore quest'anno; i profitti delle multinazionali del settore lo segnalano nei bilanci delle case madri; ma anche gli scioperi e gli incrementi salariali degli operai lo testimoniano, per la facilità con cui rimuovono le resistenze padronali e trovano disponibilità governativa.

La Cina non è più il luogo decentrato, esternalizzato del ciclo produttivo delle metropoli, della fabbrica, delle multinazionali. E' un soggetto autonomo di accumulazione capitalista che ha raggiunto una maturità imperialista nell'esportazione di capitale negli investimenti in Africa, in America Latina, per garantirsi le materie prime, ma anche gli spazi commerciali per l'esportazione (porti greci).

Il 35% del PIL è nell'esportazione, ma solo il 20% sta nelle aree metropolitane; il 15% ha altri percorsi, incluso l'intreccio di scambi con le zone vicine asiatiche, definito dal Dipartimento della Difesa USA come la "collana di perle" della Cina, cioè una fabbrica integrata, la sinapsi, in una connessione in incremento pur in continua modificazione e ristrutturazione e in rapida crescita di integrazione.

Il METI (5) giapponese prevede che nel periodo 2010-2015 la crescita del PIL mondiale dipenderà per il 58% dalla performance di paesi in sviluppo, i BRIC (Brasile-Russia-India-Cina) in primis.

Ma il PCC (Partito Comunista Cinese), al suo recente congresso, ha delineato il nuovo "piano", un progetto di crescita che non vuole incrementare il ciclo auto-petrolio, la base storica dell'accumulazione industriale in USA negli anni '20/'30, in Europa e Giappone dopo gli anni '50, bensì investire miliardi di dollari entro il 2015 nei nuovi materiali, nell'informatica, nell'economia sostenibile, nei settori di alto valore, ed estendere i settori industriali maturi nelle zone arretrate, quelle che non hanno beneficiato dello sviluppo economico, dove il costo del lavoro rimarrà ancora contenuto per il grande esercito di riserva.

4. L'Europa

L'Europa ha subito la crisi USA. Il suo PIL è caduto. L'intervento dei singoli governi è servito a fare argine con il debito pubblico alle difficoltà delle banche, delle imprese, del settore edilizio.

La BCE ha sostenuto l'insieme con un tasso di sconto vicino allo zero e molta liquidità. L'Europa sconta l'essere una zona commerciale con un interscambio del 63%, un peso del 21% sul PIL mondiale, una moneta unica, ma nessun intervento centrale di progettazione economica.

Ogni paese ha una sua peculiarità e diverse priorità, quindi le decisioni sono mediazioni, spesso lente, dipendenti dalle scadenze elettorali dei singoli governi.

Riaffiorano le condizioni costitutive dell'euro, deficit al 3%, debito al 60%, a cui riportare i parametri fuoriusciti per necessità. Ridurre il debito, ridimensionare la spesa pubblica in tutte le voci oggi, ma principalmente e strutturalmente verso le spese sociali, nel salario differito e nello stipendio dei pubblici dipendenti. Nonostante il calo dei consumi, la disoccupazione, la crescita stagnante che solo in anni potrà recuperare i livelli del 2006 nel PIL, le preoccupazioni sono i parametri monetari predeterminati: cioè garantire il potere delle banche e delle multinazionali, le regole del mercato.

Solo l'impresa è artefice della crescita economica (se si ristruttura con l'esportazione nelle zone trainanti può rimanere competitiva, se continua a delocalizzare le produzioni mature, se quelle decotte chiudono), quindi deve migliorare la sua redditività.

La disoccupazione aumenta l'esercito di riserva e rende gli occupati più disponibili a orari lunghi, a meno salario, a meno diritti, ad un aumento dell'intensità dello sfruttamento (il plusvalore assoluto), ma anche ad un uso dei fattori produttivi maggiore, (il plusvalore relativo), con nuove tecniche organizzative e nuovi mezzi di produzione sia in Germania come in Italia a Pomigliano.

Le banche, il settore del credito, restano il problema. Per quanto aiutate con miliardi di euro, il volume e la qualità dei "titoli tossici" in deposito sono sconosciuti, (cioè la quantità dei crediti insolubili). La UE decide che si può solo dilazionare nel tempo lungo e permettere la loro metabolizzazione con ricapitalizzazioni (Basilea 3), cioè dando l'opportunità di nuovi e ampli profitti che diminuiscano percentualmente le perdite.

In questo senso, va ridotto il possesso di buoni del tesoro che, per quanto migliorino il loro reddito nel breve periodo, non sono sufficienti a migliorare significativamente il ROE (6), il margine degli utili, ponendosi anche il rischio di consolidamento degli Stati.

L'Irlanda è sintomatica: nazionalizzate le banche, le loro difficoltà, legate ai crediti immobiliari e alla bolla speculativa, sembravano risolte con una percentuale di inesigibilità bassissima, per diventare dopo 2 anni un buco che solo con il 30% del PIL può essere ripianato dallo Stato.

La Germania è il perno dell'euro, ma la sua propensione all'esportazione di manufatti e ai suoi surplus, condiziona le sue priorità e lega gli altri paesi alle necessità delle sue multinazionali, indifferente all'espansione del consumo interno, ma propensa ad una intensificazione dei fattori produttivi anche stimolando l'innovazione. Infatti è tra le poche aree metropolitane a possedere ancora un settore produttivo industriale (il 35% del PIL) di ottima qualità – come solo il Giappone – e che si articola su cicli lavorativi diffusi nell'Europa dell'est, nel Nord Italia, presenti ampliamente in Cina.

5. Area turanica

Negli ampi interstizi e mercati che interagiscono a livello internazionale tra USA-UE-Cina, si stabilizzano relazioni e mire subimperialiste di paesi dell'area turanica (Iran, Turchia, ecc.), il cui ruolo è influente sul controllo dei corridoi energetici e sulle contraddizioni in aree come quella mediorientale e dell'Oceano Indiano.

6. Evoluzione

Lo scontro economico tra le diverse aree condizionerà l'evoluzione dei prossimi anni, perché i contrasti economici si intersecano con i ruoli politici e militari e i momenti di tensione si presenteranno nelle zone periferiche per il controllo delle materie prime alimentari ed energetiche e per i centri nodali di traffico, i famosi corridoi marittimi e terrestri dove transitano i containers.

La crisi economica mette in difficoltà la supremazia americana, la incrina nella sua capacità di usare il surplus del sistema-mondo per la sua crescita, nell'usare i suoi indebitamenti per appropriarsi dei beni altrui.

Ma l'imperialismo USA dispone di settori preminenti con cui articolare il dominio: essere il centro della finanza mondiale dove anche nel momento di massima crisi internazionale affluivano i capitali dal resto del mondo alla ricerca di un luogo sicuro; avere il predominio nel settore comunicativo inteso come formazione e trasmissione di "stile di vita", cioè modo di consumo e costituzione dei valori d'uso (le Nike non sono scarpe da ginnastica, altrimenti costerebbero qualche dollaro).

Il dominio però necessita sempre di una potenza militare da esercitare e questo è l'unico settore di spesa pubblica dove da sempre gli USA primeggiano, anche se essersi impantanati in Iraq e Afghanistan dimostra che la tecnologia e la supremazia aerea e navale non sono sufficienti, senza la possibilità di "praticare i territori".

La tecnologia non è statica e infatti il nuovissimo missile cinese, che permette di neutralizzare le portaerei, cambia un assetto strategico fondamentale nel controllo del mare e dei territori come era uscito dalla seconda Guerra Mondiale.

L'ideologia neo-liberista, che legava un interminabile sviluppo alla diffusione del mercato, si è dissipata. Il ciclo della crescita generalizzata è terminato. Inizia la fase della contrazione, cioè dell'acutizzarsi della concorrenza. Nulla di nuovo nella storia del capitalismo; ma che negli ultimi 30 anni compariva solo nelle elaborazioni di sparuti "rivoluzionari", romantici antagonisti.

La crisi è un momento dello sviluppo capitalistico, una fase che può essere superata solo con profonde ristrutturazioni e riorganizzazioni che modificano parametri e strutture (modificazione della composizione tecnica e organica, svalorizzazione).

Non è crollo inteso come arresto, solo un arretramento dello sviluppo, o meglio di determinate aree, e apre un periodo di transizione in cui l'instabilità economica e sociale travolge la staticità comportamentale dei soggetti, anche perché modifica in profondità le condizioni sociali.

Approfondire se si tratta di una caduta del saggio del profitto, del sottoconsumismo è marginale, quando si tratta di costruire una soluzione pratica-politica alla dicotomia tra socialismo o barbarie!

Federazione dei Comunisti Anarchici

Fano 1 novembre 2010

Documento approvato all'unanimità dal VIII Congresso Nazionale della FdCA


Note:

1. Vedi Riccardo Bellofiore (Arezzo 1953), economista presso Università di Bergamo, assertore della persistenza del ruolo del lavoro nella creazione del valore.
2. Vedi Karl Marx (Treviri 1818 – Londra 1883); secondo Marx il ciclo capitalistico non è quello "semplice" delle società pre-borghesi M.D.M (merce-denaro-merce), con il reinvestimento del capitale in nuova merce, ma piuttosto D.M.D. (denaro-merce-denaro), in cui il capitalista investe denaro in merce per ottenere più denaro. Per spiegare questa speculazione in cui si viene ad aggiungere del valore in più, detto plusvalore, Marx ritiene che questo valore aggiunto debba esser cercato non al livello dello scambio ma a quello della produzione.
3. Vedi Hyman Minsky (Chicago, 1919-1996), economista collocabile vicino al filone dei post-keynesiani, noto per la sua teoria dell'instabilità finanziaria e sulle cause delle crisi dei mercati.
4. Vedi Marcello De Cecco (Lanciano 1938), economista che si occupa delle politiche finanziarie e del funzionamento dei mercati.
5. Ministry of Economy, Trade and Industry (Ministero giapponese per l'economia, lo scambio e lo sviluppo).
6. Return On Equity: l'indice che esprime la redditività netta globale del capitale portato in azienda a titolo di rischio.

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