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“In Siria ci sono gruppi che combattono per il potere e non per la democrazia”

category mashrek / arabia / irak | imperialismo / guerra | stampa non anarchica author Monday March 18, 2013 18:54author by Mónica G. Prieto - Cuarto Poder Report this post to the editors

Intervista a Saleh Muslim, dirigente del PYD, principale frazione politica kurda in Siria

Per i kurdi di Siria (una comunità di 2 milioni di persone, che costituisce la minoranza più numerosa pari al 10% della popolazione), da quando la rivoluzione si è trasformata in guerra civile, le cose si sono ancor più complicate. Nell'affanno di proteggersi dal caos iniziale, la comunità kurda aveva partecipato timidamente alla sollevazione sociale, cosa che molti siriani hanno letto come un accordo tacito dei kurdi con il regime per evitare di subirne la repressione; inoltre, questa neutralità è stata vista come una carta che Damasco gioca contro la società siriana.

Per il dirigente del Partito di Unità Democratica (PYD), principale frazione politica kurda in Siria, tutte queste critiche da parte degli attivisti sono infondate. “Non è vero che non facessimo parte della rivoluziona siriana all'inizio”, sostiene Saleh Muslim Mohamed [Ain al Arab, 1951]. “Per la verità noi abbiamo iniziato nel 2004, quando combattemmo il regine e subimmo molte perdite. Quando è iniziata la rivoluzione nel 2011 c'eravamo anche noi, però con una strategia e con una visione differenti. Crediamo in una rivoluzione pacífica perchè il regime dispone di tutte le armi. Se una rivoluzione inizia ad armarsi necessita che altri paesi la aiutino, e dunque si diviene ostaggio di altri paesi e dei loro interessi. E questa è la fine della rivoluzione”. [Castellano]

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Intervistato sulla strada per Beirut, il responsable del PYD – partito considerato la diramazione siriana del Partito dei Lavoratori Kurdi, o PKK - descrive i delicati crocevia che deve affrontare la sua comunità, soprattutto nelle regioni kurde del nord. All'inizio si erano uniti alle manifestazioni pacifiche, ma il sostegno turco alle proteste li aveva indotti a maggiore cautela, dal momento che Ankara è vista come il loro principale nemico. La repressione del regime contro la comunità kurda non è stata violenta come quella contro la popolazione araba, una scelta che nelle intenzioni di Damasco mirava a far dissociare i kurdi dalla rivoluzione facendo loro paventare un futuro incerto, così come aveva già fatto con altre minoranze.

I partiti kurdi hanno approvato questa ricerca della neutralità per organizzarsi autonomamente, raggiungendo in un anno un'autonomia finora mai raggiunta. Ora sono le milizie kurde che controllano le aree kurde, grazie al ritiro da queste zone degli effettivi militari del regime, una ritirata non concordata col regime, ci tiene a precisare Muslim.

“Da tempo vale il principio che non ci deve essere un esercito siriano alle frontiere in virtù di un accordo sottoscritto nel 1952 tra le autorità siriane e quelle turche. In base a tale accordo, non ci possono essere armi pesanti nè truppe in un margine di 25 chilometri tra la frontiera turca ed il territorio siriano. Il regime turco è responsabile di questa zona. Per questa ragione non c'era una gran presenza militare siriana, tranne forze di polizia e di intelligence. Ci sono state almeno 5 agenzie di intelligence in zona, ma poi se ne sono andate”, dice Saleh Muslim; il quale aggiunge che il regime non vedeva nella comunità kurda una minaccia. “Noi sapevamo che non ci avrebbero attaccato perchè noi non siamo estremisti e perchè il regime turco non ci avrebbe mica aiutato contro Damasco. Il regime siriano sa che, se ci attacca, i kurdi si unirebbero per affrontare l'aggressione. A Damasco non interessa aprire un nuovo fronte. Per questo ci siamo organizzati, per realizzare i nostri diritti".

Vista l'assenza di autorità, i kurdi hanno iniziato ad autogestirsi. In alcuni casi lo hanno fatto ricorrendo alle armi: in zone come quelle di Efrin o di Kobaneh, ci sono le Unità di Protezione Popolare, gruppi armati che rappresentano la maggior parte delle frazioni kurde, che si sono schierati intorno agli edifici ufficiali controllati dal regime: “Abbiamo detto alle forze del regime che o se andavano oppure li avremmo affrontati militarmente. E se ne sono andati”. Tuttavia, Muslim afferma che il ricorso all'uso della violenza è ridotto al minimo per timore di scontri con le entità tribali arabe che vivono nelle zone kurde e che sono state armate da Damasco in previsione di una rafforzamento tale dei kurdi da costituire una minaccia per il regime.

“Il regime ha armato le tribù arabe nelle zone kurde più di un anno fa. Non ci interessa avere scontri con gli arabi e per questa ragione, ad esempio, non attacchiamo gli edifici governativi. Siamo prudenti perchè temiamo che ogni scusa possa servire al regime per far sollevare le tribù arabe contro di noi, cosa che sarebbe negativa per tutti”.

Vedendosi forti nelle zone in cui sono stragrande maggioranza, le Unità di Protezione Popolare hanno preso il controllo della località di Sere kani (nome kurdo della località di frontiera di Ras al Ayn), Amud ed Efrin a metà luglio. “Sere kani e Qamishli sono stati due posti in cui abbiamo lasciato gli edifici istituzionali intatti. Controlliamo tutto in entrambe le città, però con tocchiamo le sedi governative perchè desideriamo evitare qualsiasi guerra civile”. Nel caso di Sere Kani, l' operazione militare è stata la risposta alla presenza di gruppi jihadisti che erano venuti per sparare contro i manifestanti.

L'eccezione a questa scelta si è avuta a Tallddes, dove l'attacco contro le forze governative è stato fatto in coordinamento con l'opposizione araba. “A Tallddes ci siamo comportati diversamente perchè siamo riusciti a convincere gli arabi che avevamo gli stessi obiettivi. Poi, se abbiamo attaccato gli edifici governativi, lo abbiamo fatto congiuntamente ai combattenti arabi: abbiamo circondato una base con 300 soldati per 13 giorni ed alla fine l'abbiamo presa con la perdita di 7/8 militari. Gli altri li abbiamo lasciati andare”. Quella base serviva al controllo della raffineria nei pressi di Gir Ziro. “Ora è sotto il nostro controllo ed abbiamo creato comitati unitari con le comunità arabe per controllare la zona”.

La facilità con cui sono state ottenute questa ed altre vittorie militari –salvo casi minori- ha sollevato sospetti tra la popolazione araba nei confronti dei kurdi. Questa è stata la causa di scontri armati successivi tra i kurdi e gruppi armati che, secondo Muslim, non hanno nulla a che vedere con l'Esercito Libero di Siria (ELS), sigla che raggruppa tutti i ribelli in armi contro la dittatura.

“Dal luglio 2012 abbiamo rapporti con i gruppi armati arabi. Gli abbiamo detto: abbiamo liberato le vostre zone e non abbiamo nessun problema con voi, ma ora andiamo a liberare le nostre zone. E questo alla Turchia non è piaciuto. Fin dal primo momento, la Turchia ha spinto la rivoluzione verso una soluzione armata e ci è riuscita. Ci sono molti gruppi legati alla Turchia, a cui non piace affatto assistere alla liberazione delle zone kurde e vedere come riusciamo ad autogovernarci: per questa ragione [la Turchia] sta ordinando ai suoi gruppi di attaccarci, come è successo ad Aleppo. L'ultima volta è successo a Sere kani, una zona di grande importanza strategica [alla frontiera con la Turchia]. Nell'ultimo scontro, ci sono stati molti morti, almeno 15 dei nostri ed un centinaio dall'altra parte. E non c'è possibilità di dialogo perchè queste forze non ascoltano nessuno, non dipendono dal Consiglio Nazionale Siriano, fanno solo quello gli chiedono: obbediscono solo alla Turchia”.

Porteranno queste tensioni ad una guerra civile tra arabi e kurdi siariani? Per Muslim, non esiste questa eventualità perchè quelli che si sono scontrati con le forze kurde non sono ribelli siriani. “Sono gruppi che vengono da fuori: sono libici, tunisini, forse anche siriani, però per la maggior parte vengono da fuori, da de Tora Bora. Alcuni non sono solo arabi, sono estremisti musulmani. Ora si è aperto l'inferno a Sere kani”.

In estate ci sono stati scontri aperti con gruppi armati, ed in zone come Aleppo i rapporti con l'ELS sono critici, pochi giorni or sono il regime ha attaccato i quartieri kurdi di Aleppo, città in cui ci sono duri combattimenti da un anno e mezzo. “Ad Aleppo, a Sheikh Maqsoud ed a Ashrafiyeh: accettiamo la realtà della situazione: all'ELS non piacciono i kurdi e non riconoscono i diritti del popolo kurdo. Non accettano nemmeno la stessa presenza dei kurdi, la stessa cosa che ha fatto il regime siriano, che ha storicamente negato i nostri diritti. Crediamo che ci sia un accordo tacito, almeno nel caso di Aleppo, per combattere i kurdi: per quale ragione, se no, non si combattono tra di loro?”.

Le relazioni dei kurdi siriani con le organizzazioni dell'opposizione in esilio sono scarse. “Con il CNS (Consiglio Nazionale Siriano, ndt) cerchiamo di tenere buoni rapporti, però il fatto che abbia sede in Turchia e che sia sotto la protezione della Turchia costituisce per noi un problema. Lo stesso succede con l'organismo creato a Doha dal Qatar (Coalizione Nazionale che raggruppa buona parte dell'opposizione a Bashar, ndt)”, ci spiega Muslim. Nella visione del dirigente del PYD, nel futuro della Siria c'è l'autogoverno dei kurdi. “Noi vogliamo la democrazia. Vogliamo garanzie costituzionali per i diritti dei kurdi su tutti gli aspetti: sociali, politici, economici, culturali, il diritto all'autodifesa… Non è importante come definirlo: federalismo, autonomia, non ci interessa. Non vogliamo dei confini: i kurdi di Damasco devono avere gli stessi diritti dei kurdi di Daraa o delle zone del nord”.

Il responsabile storico kurdo, entrato in politica negli anni '70 e poi incarcerato, con sua moglie, dal regime di Damasco, mette da parte i conflitti e le divisioni tra i kurdi su cui tanto si specula all'estero –solo in Siria ci sono 2 blocchi politici, il Consiglio Popolare del Kurdistan occidentale ed il Consiglio Nazionale Kurdo Siriano, uniti in extremis in un Comitato Supremo: i gruppi che lo costituiscono si sono scontrati innumerevoli volte- anche per la presenza di combattenti kurdi nelle file dell' ELS. “Non lo consideriamo un problema. La società kurda è povera ed è possibile comprarla con i soldi, come succede dappertutto”.

Per quanto riguarda il futuro, Muslim si dimostra pessimista. Una cosa è sicura: tutti coloro che all'inizio hanno preso parte alla rivoluzione, lui stesso incluso, in nome della democrazia e dei diritti civili, si sono visti derubati delle loro speranze. “Quello che cercavamo con questa rivoluzione, cose come la democrazia o la libertà, non hanno niente a che vedere con quello che sta succedendo adesso. Ora ci sono solo gruppi armati che combattono per gli interessi dell'Arabia Saudita, altri gruppi combattono per gli interessi del Qatar, altri per conto della Turchia… Combattono per il potere e non per la democrazia o per il popolo”.

“Credo che Bashar resterà al potere ancora un po'. Credo che si stia andando verso una soluzione alla yemenita, Bashar non se ne andrà facilmente. E' possibile che non gli consentano di restare al potere, ma la domanda non è questa, bensì cosa succederà dopo con gli estremisti, con gli islamisti radicali? Si combatteranno tra di loro, combatteranno contro i laici, contro il mondo intero? Quanto tempo ci vorrà? Mi spiace dirlo, ma sono molto pessimista sul futuro della Siria”.


Traduzione a cura di FdCA-Ufficio Relazioni Internazionali.

Prima pubblicazione:

Related Link: http://www.cuartopoder.es/elfarodeoriente/en-siria-hay-grupos-que-combaten-por-el-poder-no-por-la-democracia/3986
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