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"ZINGARI": UN POPOLO IN FUGA PERMANENTE

category italia / svizzera | migrazione / razzismo | altra stampa libertaria author Monday November 03, 2014 05:48author by Gianni Sartori Report this post to the editors

Da un episodio del passato qualche considerazione sulle discriminazioni

Un incontro del 1970 con una famiglia di "zingari" da cui è poi nato un rapporto, per quanto saltuario, con i popoli sinti e rom...la cui stessa esistenza è la conferma della non indispensabilità dello stato....

CORREVA L’ANNO 1970… (Eride e i suoi fratelli)
(Gianni Sartori)

Era una nebbiosa serata di novembre. L’anno il 1970. Dopo la riunione, avevo accompagnato Tiziano Zanella verso casa. Progetti, speranze, dubbi che si affacciavano alla mente di due diciottenni già schierati politicamente e poco disposti a pazientare. A dire il vero, anche se sarebbe più in sintonia, la riunione non era per organizzare manifestazioni o picchetti, ma una spedizione alla grotta denominata “Buso della Rana”, all’epoca ancora la più lunga d’Italia (tra quelle conosciute, ovviamente). Presumo quindi fosse venerdì, serata canonica per gli incontri del Club Speleologico Proteo. Lo stradone dello stadio affogava nella densa nebbia che fuoriusciva dal fiume Bacchiglione. A mala pena si distingueva un alone lattiginoso attorno ai lampioni. I tigli siberiani sull’argine, ombre nere che si perdevano verso l’alto. Impossibile distinguere il ponte della ferrovia e, sull’altra riva, il piccolo monumento ai “Dieci martiri”. Tra i giovani resistenti fucilati dai fascisti sulla striscia di terra che separa il Bacchiglione dal Retrone, anche due rom.
Improvviso un rumore di passi nelle tenebre, forse una voce. Un’immagine che ricorderò per sempre. Cinque figure allineate, di corsa, che si tenevano per mano occupando quasi l’intera carreggiata. Nessuno restava indietro. Sull’argine, per un attimo, due sagome evanescenti subito dissolte. Le persone in realtà erano sei. Una madre con i suoi figli. Il più piccolo, avvolto in uno scialle, appeso al collo.
La donna, una “singana” nel linguaggio politicamente scorretto di quando non si sapeva di sinti e di rom, raccontò di essersi accampata nello spiazzo lungo la ferrovia, vicino al vecchio Foro boario, uno dei luoghi dove periodicamente si fermavano carovane in transito.
Ci spiegò che due individui (le ombre intraviste sull’argine) avevano tentato di entrare con chiare intenzioni. Preoccupata soprattutto per la figlia quattordicenne, era immediatamente fuggita portandosi appresso tutta la famiglia. Raccontò di essere stata recentemente abbandonata dal marito che se ne era andato con la loro roulotte e di vivere in una tenda, dono di un medico benefattore. Fino a qualche giorno prima il campo aveva ospitato alcune carovane. Ma poi erano partite per Milano e loro erano rimasti soli, in attesa che qualcuno li aiutasse a trasferirsi dall’altra parte della città. A Sant’Agostino, dove agli inizi degli anni settanta stazionavano sempre piccoli gruppi di nomadi.
La donna, nonostante la situazione, dimostrava un forte carattere e non voleva assolutamente ritornarsene nella tenda. I loschi individui avrebbero potuto ritornare. Che fare? Alla fine, dopo aver ampiamente dibattuto, pensammo di risolvere la situazione ospitando provvisoriamente la famiglia in una qualche sede di quelle che frequentavamo abitualmente . Una telefonata per strappare al sonno un dirigente politico, discussione animata (per gli ideologi operaisti ortodossi gli “zingari” erano lumpenproletariat di cui diffidare) e alla fine consegna delle chiavi. Le organizzazioni della sinistra extraparlamentare presenti a Vicenza erano allora una mezza dozzina. Per quella notte trovammo ospitalità a “Potere operaio”, nella vecchia sede di S.Caterina, la prima. Mettemmo a disposizione la sala delle riunioni (dove troneggiavano due manifesti di Marx e Lenin:“ma quello chi è, tuo nonno?”) dove dormirono avvolti nelle coperte che, prudentemente, si erano portate via prima di scappare, mentre noi restammo a far la guardia tra il corridoio e il ciclostile. Un paio di notti freddissime, nonostante l’eskimo. Nei giorni successivi ci occupammo del trasloco, effettuato con uno di quei carretti a pedali che circolavano ancora in città. Per più di un anno frequentai il campo dove si erano stabiliti contribuendo con collette e doni in viveri. Determinante, sia per umanità che per doti organizzative, il ruolo del futuro dott. Dino Sgarabotto che successivamente avrebbe confermato la sua tempra umanitaria in Kenya con il CUAM.
La madre dei bambini raccontava di essere sfuggita, in tenera età, allo sterminio della sua famiglia. Un giorno dei funzionari erano venuti a cercarli in una località “vicino a Trieste” (poteva trattarsi anche dell’Istria) per portarli a “fare gli esami del sangue” e nessuno di loro fece più ritorno. In quel momento lei era in giro, a giocare, e una sua cugina (che evidentemente aveva mangiato la foglia) si offrì di restare ad aspettarla per poi recarsi in”ambulatorio”. Appena la bimba fu tornata, la cugina l’afferrò e cominciò a correre, a scappare lontano.
Davo per scontato che la famiglia fosse stata distrutta per mano dei nazifascisti, ma poi qualcuno (forse un “revisionista”?) suggerì che avrebbero potuto trovarsi anche tra le vittime delle foibe. Molti di loro infatti erano classificati come “profughi giuliani”. Lo scoprii quando, in occasione delle elezioni, venivano nel campo per comprarsi qualche voto gli esponenti di un partito ben noto. Ma non certo per il suo antirazzismo. Missini senza scrupoli che al danno aggiungevano anche le beffe. La conferma che era stata opera dei nazifascisti (in una data imprecisata, ma comunque dopo l’8 settembre 1943) la ebbi quando mi recai, su loro richiesta, al Comune di Trieste (in autostop) per ritirare alcuni documenti. Dalle carte si intuiva che la prima tappa del viaggio verso la desolazione e la morte era stata a San Sabba, la “risiera”.
Nessuno dei cinque figli frequentava la scuola anche se tre di loro ne avevano l’età. Sette, otto e quattordici anni. Cominciai quindi a dare lezioni, all’aperto, anche d’inverno. Talvolta con il terreno ricoperto di neve. Avevamo trovato una stanza, messa a disposizione da una signora di buon cuore, ma loro preferivano così. La cosa avveniva in maniera del tutto “spontaneista” (oltre che, sicuramente, velleitaria) dato che diffidavo delle varie associazioni impegnate all’epoca a “riadattare i nomadi” (come da statuto). Qualche problema anche con alcuni compagni che si occupavano esclusivamente di “classe operaia” dura e pura. Anche se poi, diversamente da chi scrive, a lavorare in fabbrica nessuno di loro c’è mai andato. In compenso qualcuno di loro avrebbe visto volentieri gli zingari alla catena, anche se solo di montaggio*. Da parte mia (dato che la Rivoluzione sembrava ormai dietro l’angolo) ritenevo fosse giusto “non lasciare indietro nessuno”. Talvolta succede, da giovani, di volare alto. Malattia infantile da cui si può comunque guarire.
Studente-lavoratore, trascorrevo parecchie notti da “Domenichelli” a scaricare e “stivare” camion. Di solito mi recavo al campo nel pomeriggio, prima di iniziare il turno. Altre volte di mattina, quando staccavo. Ovviamente non tutti i giorni, sicuramente molto meno di quanto sarebbe stato necessario. Ma con l’aiuto di alcune amiche del “Fogazzaro” (ricordo in particolare due compagne, Rosanna Rossi e Chiara Stella) qualcosina riuscimmo a insegnare. Anche perché i bambini erano svegli, soprattutto Eride, la più grande. Ne avemmo conferma un paio d’anni dopo che se ne erano andati, a Milano. Sul “Corriere della sera” venne pubblicata una sua lettera bellissima (forse un po’ strappalacrime, ma a fin di bene) che suscitò un’ondata di solidarietà nei confronti della sfortunata famigliola.
Per il sottoscritto c’era stato qualche piccolo precedente rivelatore. Una mezza denuncia, due anni prima (nel “68”) per aver tolto (“divelto”) alcune tabelle di “Sosta vietata ai nomadi”. In seguito, partiti i miei amici per Milano, non ricordo di averne frequentati altri per parecchi anni, almeno in Italia. Invece all’estero non mancarono occasioni di confronto e talvolta anche di “scontro”, come quando in Bosnia venni inseguito per essermi avvicinato a un accampamento con macchina fotografica. Ricordo, in Guipuzkoa, un militante del movimento antinucleare Eguzki che rivendicava di essere “un basco di origini gitane” e i Tinkers accampati tra il Bogside e il Craigsvon Bridge, a Derry, in Irlanda del Nord (in realtà i Tinkers avrebbero scelto il nomadismo in epoca relativamente recente, per imitazione).
Nel 1987 proposi ad un settimanale locale di “area progressista” (Nuova Vicenza) alcuni articoli sui campi nomadi del vicentino, via Cricoli in particolare. Visitai, venni invitato a pranzo, partecipai a qualche battesimo, matrimonio e funerale e scattai molte fotografie su richiesta. In una di queste, tempo dopo, riconobbi Paolo Floriani, un ragazzino destinato a morire tragicamente a causa di un inseguimento impietoso da parte della polizia. La sua corsa finì a Debba nel fiume Bacchiglione, in novembre, dopo aver salvato la vita dell’amico Davide che stava per annegare. **
Come potei documentare, mentre i due sinti fuggivano in motorino per i campi (il giorno dopo restavano ancora i segni delle ruote sull’erba di un vigneto e ne conservo le foto), la polizia aveva sparato, probabilmente in aria. Dal punto dove si era buttato in acqua a quello in cui era annegato c’era una distanza di circa cento metri. Braccato da una riva all’altra, aveva attraversato il fiume quattro volte prima di affogare. Partecipai ai funerali di Paolo e il mio articolo, in cui lo definivo “vittima di razzismo istituzionalizzato, di Stato”, non venne mai pubblicato dal solito settimanale “progressista” (per non aver rogne con le autorità, mi spiegarono). Diventò un volantino di denuncia, firmato dalla sez. di Vicenza della “Lega per i diritti e le liberazione dei popoli” e per quel testo rischiai una querela.*** Ma questa è un’altra storia.

Gianni Sartori


* solidarietà, invece, dai compagni del M.A.V. (Movimento anarchico vicentino, ricordo Claudio Muraro, Rino Refosco, i fratelli Anna ed Enrico Za, Laura Fornezza, Stefano Crestanello, Guido Bertacco, Alberto Pento, Gianni Cadorin… che nello stesso periodo difendevano la dignità di altri “marginali”, i reclusi dell’ospedale psichiatrico. Con il sostegno del compianto Sergio Caneva, medico e partigiano.
** Per saperne di più vedi: “Nomadi e scomodi” su A, rivista anarchica n. 187, dicembre 1991 e anche “la morte di tarzan” sempre su A, Rivista anarchica n. 206, febbraio 1994
*** L’autore di un articolo sulla morte di Paolo (Gianni Nizzero, un ex di Lotta Continua) pubblicato dal Giornale di Vicenza non aveva gradito di essere stato “messo in discussione” nel volantino

author by Gianni Sartoripublication date Sat Nov 15, 2014 07:02author address author phone Report this post to the editors

Da: A, rivista anarchica
anno 24 nr. 206
febbraio 1994

La morte di Tarzan
di Gianni Sartori

Il 23 settembre Tarzan Sulic, bambino «zingaro» di 11 (undici!) anni muore nella caserma di Ponte Brenta (Padova) per un colpo della beretta 92s in dotazione al carabiniere Valentino Zantoni.
Lo stesso ha ferito, quasi mortalmente trapassandola al torace, la cuginetta Mijra.
Su questa morte, da più parti definita «omicidio di stato», si è cercato di stendere un velo poco pietoso, il velo di una «copertura» istituzionale della verità in cui «magistrato, giornali, TV e colonnelli dell'arma hanno giocato il loro ruolo». Questo sostiene il Comitato di controinchiesta che a Padova si è mosso con impegno e determinazione per mantenere aperta l'attenzione su questo gravissimo episodio.
Al Comitato hanno aderito decine di gruppi, associazioni, singoli ed è in preparazione un video che raccoglie gli elementi della controinchiesta.
Il Comitato ha messo in discussione la versione ufficiale, quella data per buona dal P.M. dottor Cappellari secondo cui un bambino di 11 anni sarebbe stato in grado di disarmare un ex parà nello spazio di 70 cm e poi, lottando con il carabiniere alto 1.90, caricare la pistola e spararsi addosso.
«Attualmente - informa il Comitato - il carabiniere in questione è stato sospeso e trasferito, unicamente a sua tutela, non è ufficialmente ancora indagato, mentre la famiglia dei due bambini nomadi ha dovuto spostarsi di molti chilometri, viste le pesanti attenzioni dei tutori dell'ordine».
Ma gli aderenti al Comitato sono molto critici anche con la stampa che avrebbe «letteralmente banchettato sulla storia del "piccolo ladro"».
Delusione soprattutto nei confronti degli articoli dell'Unità che non si è fatta scrupolo di usare epiteti puramente spettacolari (come «Tarzan di nome e di fatto») che convalidavano, dandola per scontata, la versione di giudici e carabinieri. Dato che in proposito erano sorti equivoci, colgo l'occasione per dichiarare che il sottoscritto non ha nessuna parentela nè tanto meno affinità ideologica con il corrispondente padovano dell'organo del PDS, Michele Sartori.
Quelli del Comitato si stanno battendo per ristabilire la verità, perchè dietro a questa tragedia c'é una ben precisa cultura dominante, quella del razzismo, pianificato con leggi e coperture. Come nel caso per tanti versi analogo di Paolo Floriani, il comportamento di polizia e carabinieri nei confronti di «zingari» e immigrati rivela di essere solo uno degli effetti di questa «cultura» diffusa. Alcuni esponenti del Comitato ci hanno illustrato come, in base ai dati da loro raccolti, i «due bambini siano stati chiusi in cella e violentemente percossi».
Inoltre «le macchie di sangue, i fori sui corpi dei bambini, la perizia balistica, rivelano che il colpo va dall'alto verso il basso». E ancora: «Quanto alle tracce di polvere sulle mani di Tarzan (secondo la perizia del guanto di paraffina) possono significare che ha tentato di proteggersi il viso al momento dello sparo».
Un altro elemento prodotto dalla controinchiesta è che la pistola (una 92s) è dotata di più sicure; per essere caricata con il colpo in canna ha bisogno di una pressione sul carrello di oltre sette chili e per premere il grilletto, coperto da sicura, ce ne vogliono più di cinque. Inoltre, come poteva scorrere il carrello se (stando alle dichiarazioni dei carabinieri) il bambino impugnava l'arma almeno da una parte? E chi sarà mai la persona che si è presentata all'ospedale pretendendo la consegna del proiettile estratto dal corpo di Mijra? Tutto questo, oltre a smontare la versione ufficiale, alimenta dubbi inquietanti. Se il carabiniere voleva solo intimidire il bimbo, perché oltre ad estrarre la pistola e puntarla addosso a Tarzan, ha anche messo il colpo in canna, togliendo tutte le sicure?
Grazie all'opera del Comitato sembra che la Procura, dopo aver dichiarato che la versione dell'unica testimone, la bambina (secondo la quale il carabiniere avrebbe sparato a Tarzan) era «inattendibile», abbia intenzione di far marcia indietro.
Si parla di una possibile incriminazione del carabiniere per «omicidio preterintenzionale». Fonti accreditate spiegano questo cambiamento di rotta con nuove deposizioni rese dal militare. Avrebbe riconosciuto che al momento dello sparo l'arma si trovava saldamente impugnata nelle sue mani. «Qualora tutto questo dovesse essere confermato - dichiara il Comitato di controinchiesta - prende corpo una realtà atroce che va anche al di là delle ipotesi da noi formulate». (Gianni Sartori)

author by Gianni Sartoripublication date Sat Dec 13, 2014 23:16author address author phone Report this post to the editors

ciao, NON consideratela una provocazione: ho ripescato questa intervista a Costanzo Preve del 2007 e rileggendola mi ha dato da pensare. All’epoca NON l’avevo pubblicata (come autocensura?) e onestamente, soprattutto dopo la sua scomparsa, mi ero sentito un poco il “commissario politico” di me stesso. La butto lì come argomento di discussione (e comunque mi sembra che ci sia una grossa differenza tra la sofferta parabola di Preve e quelle dei suoi recenti epigoni ed estimatori)
Intervista con COSTANZO PREVE, un filosofo “fuori dal coro” o un caso di disgregazione della Sinistra?
(Gianni Sartori da Torino, 2007)
Costanzo Preve, filosofo e autore di decine di libri, è nato a Torino nel 1943. Ha studiato in Francia (“con una borsa di studio”, sottolinea) e si è laureato nel 1967. Racconta di “essere diventato un socialista, un comunista utopista a venti anni, anche per reazione alla famiglia piccolo-borghese, impiegatizia, legata allo spirito-Fiat e al conservatorismo sociale del tempo”. Molteplici le esperienze politiche: la gioventù comunista francese, il PCF, la partecipazione alla Resistenza greca dal 1967 al 1974 (anche se, precisa, “in maniera subalterna”). E poi, in Italia, il PCI, Lotta continua, Democrazia proletaria.
Questa è stata la sua ultima “esperienza di partecipazione organizzata”. Dal ’92 “compagno di strada” per qualche anno di Rifondazione (ma non iscritto) e poi la scelta attuale del “non voto”, di considerarsi “un allievo indipendente di Marx e un libero ricercatore”.
Uno studioso, quindi e come tale vorrebbe essere conosciuto e ricordato. E non solo di Marx perché “naturalmente non è l’unico mio maestro”. Un intellettuale “non gramsciano, perché l’intellettuale non deve essere organico a priori”. L’intellettuale, secondo Preve, dovrebbe “ produrre ciò che ritiene essere vero nella sua ricerca”. Marx ha scritto il Capitale “per suo piacere, perché non poteva non farlo. Se quello che ha scritto è poi servito al proletariato, meglio così. Allo stesso modo Pasteur non ha fatto le sue ricerche perché voleva essere utile; lo ha fatto spinto dal desiderio della scienza; successivamente le sue ricerche sono servite a milioni di persone…”. Naturalmente “la mia stima personale e morale per Gramsci rimane inalterata, pur avendo un dissenso di carattere filosofico nei suoi confronti”.
Costanzo Preve è ben conosciuto anche nel vicentino dove, insieme all’economista Gianfranco La Grassa, ha partecipato a numerosi incontri e dibattiti organizzati dal “Collettivo Spartakus” e da “Punto Rosso”.
Il filosofo torinese rivendica (v. un’intervista su “Indipendenza”, agosto 2007) la sua recente collaborazione con alcune riviste della “destra radicale” (“Eurasia”, “Comunitarismo”, “Edizioni all’insegna del Veltro, Edizioni Settimo Sigillo…) come una scelta di libertà per l’espressione delle sue idee a prescindere dai luoghi.
Soprattutto perché “nel frattempo qualcosa è cambiato. C’è stata la guerra Usa contro l’Iraq del 2003. Chi non ha capito che da allora qualcosa di strategico è veramente cambiato nel mondo, e crede di lavarsene le mani denunciando il feticcio di un presunto “anti-americanismo” da cui tenersi virtuosamente lontani, non coglie e non può cogliere, a mio avviso, i dati storici nuovi del problema. Nel mio piccolo, io credo invece di averli colti”.
Da questo nuovo scenario deriverebbe la sua “adesione a due concetti di fondo. Primo, al concetto di legittimità della questione della geopolitica. Secondo, ad una versione puramente difensiva della geopolitica eurasiatica, cui personalmente non aggiungo nessuna componente etnico-culturale sovrapposta alle singole nazionalità”.
Per quanto riguarda il comunitarismo, il suo riferimento non sarebbero le correnti di destra che si ispirano a Jean Thiriart (fondatore di Jeaune Europe a cui aderì anche Claudio Mutti) ma piuttosto i “communitarians” americani come Mc Intyre (peraltro giudicato troppo “liberale”).
Personalmente rispetto le posizioni di Preve, anche se leggendo alcuni articoli pubblicati dalla stampa comunitarista ho provato un certo disagio.
Sembrava di risentire certi proclami di Terza Posizione o dei “nazional-popolari” del Fronte Nazionale di Tilgher (poi diventati “Fronte Sociale Nazionale”, se non sbaglio). Mi riferisco in particolare a “Comunità e Resistenza”, organo di “Comunità politica di avanguardia” che distribuisce in rete gli adesivi in onore dello sceicco Ahmed Yassin, fondatore di Hamas.
D. In quanto esponente di “Iraq Libero” e del “Campo antimperialista”, cosa pensa della guerra in Iraq? Come giudica il ruolo dei movimenti occidentali (pacifisti, No-global…) che si oppongono al “nuovo ordine mondiale” imposto con le armi?
R. Intanto voglio precisare che considero “Iraq Libero” un esempio di solidarietà antimperialista, ma non un’esperienza organizzativa o un tentativo di costituire un nuovo partito comunista.
La guerra contro l’Iraq del 2003 è la quarta guerra dopo la fine del bipolarismo; anche questa, come la prima del ’91, la guerra contro la Yugoslavia e quella in Afghanistan è stata resa possibile dalla fine del vecchio ordine bipolare Usa-Urss. Il vecchio ordine non aveva certo impedito le guerre (Corea, Vietnam…), ma sempre dentro ad un preciso confronto ideologico oltre che geopolitico. Per questo ero favorevole all’Urss (anche se con Marx non c’entrava niente), per il ruolo che svolgeva sul piano geopolitico.
La resistenza del popolo iracheno sta impedendo la 5° guerra del nuovo ordine mondiale (un riferimento all’Iran ndr). Considero quindi insufficienti le posizioni dei vari pacifisti, cossuttiani, bertinottiani, No-global…A mio avviso bisogna riconoscere che la lotta del popolo iracheno è legittima e storicamente positiva, proprio perché finora ha impedito agli Usa di intraprendere nuove guerre.
D. Le elezioni palestinesi nel 2006, la vittoria di Hamas, gli scontri tra fazioni palestinesi… hanno rimesso in discussione l’ipotesi di uno “stato palestinese”. La ritiene ancora plausibile o si profila la nascita di un sistema di “bantustans”, analoghi a quelli dell’apartheid sudafricano?
R. Resto del parere che Israele intenda espellere il popolo palestinese dai territori occupati, trasformando la Giordania in Palestina.
Ma questo è il “programma massimo”, al momento non realizzabile per ragioni sia internazionali che demografiche. E’ un progetto che riguarda tutti gli schieramenti israeliani, sia i laburisti che il Likud, con l’eccezione di alcuni gruppi pacifisti minoritari.
Quindi la strategia alternativa è quella di fare i bantustans con i Palestinesi che vivono di lavoro nero (in Israele) per poi svuotarli gradualmente con pressioni di carattere economico. Non mi sembra che questo governo intenda realizzare la “Road map” per ritornare alla situazione del 1967, altrimenti l’avrebbe già fatto con Abu Mazen. Quello previsto per i Palestinesi è il 30-40% della vecchia West Bank (di prima del ’67), ossia il 15% di quella che era originariamente la Palestina. E con i muri che rosicchiano altro territorio.
D. A questo punto qualcuno potrebbe fare l’equazione antisionismo uguale antisemitismo…
R. Considero l’antisemitismo un fenomeno volgare, barbarico, tribale…E’ talmente ovvio che mi sembra quasi vergognoso doverlo dire.
Tornando alla domanda, avevo giudicato positivamente la vittoria di Hamas. Si tratta di un movimento socialmente sano in cui il fondamentalismo religioso è un aspetto del tutto secondario rispetto a quello popolare. Hamas rappresenta il rifiuto del popolo palestinese di farsi cancellare.
Inoltre porta avanti un modello solidaristico, non individualistico. Poco importa se questo modello scaturisce da una matrice religiosa e non laica.
D. Pensando alla sua collaborazione con i comunitaristi e con la rivista “Eurasia”, qualche considerazione sull’ipotesi di un’Europa unita (da Dublino a Vladivostok…) in alternativa agli Usa. Non c’è il rischio di alimentare un imperialismo europeo?
R. Ho collaborato con la rivista, “Eurasia”, che viene infangata come “di estrema destra”. In effetti è stata fondata da alcuni intellettuali di destra (come Claudio Mutti), ma io vi scrivo perché considero molto importante definire una geopolitica europea non subalterna agli Usa. Naturalmente vorremmo un’Europa federale e democratica che lasciasse spazio ai piccoli popoli (baschi, bretoni, catalani…) e non un imperialismo europeo. Ma non vorrei che la paura dell’eventualità di essere imperialisti ci paralizzasse al punto tale di non volere nemmeno un’Europa indipendente. Oscillanti tra due mali, come l’asino di Buridano, rischiamo di non scegliere. In Europa gli imperialisti attualmente sono filoamericani; tutte le forze economiche, politiche, ideologiche che sostengono la globalizzazione sono filoamericane. Al momento attuale il problema di una eventuale Europa non filoamericana ma imperialista è astrattamente possibile, ma concretamente improbabile.
D. Quale Paese rappresenterebbe maggiormente la volontà di indipendenza europea?
R. Sicuramente la Francia. E’ quasi l’unico paese europeo con un minimo di dignità nazionale (anche se in maniera talvolta incerta, contorta), indipendente dagli Usa sul piano culturale e spirituale. Pensiamo alla posizione di Chirac nel 2003, al momento della guerra contro l’Iraq.
In seguito (per esempio sulla questione della Siria e del Libano) anche la Francia si è allineata con gli Usa, confermando che talvolta i francesi non osano essere all’altezza di quello che vorrebbero fare.
L’altro Paese europeo che giudico relativamente indipendente è la Grecia ma è piccola, marginale e conta poco.
D. Cambiamo argomento. Lei è un profondo conoscitore del marxismo e di altre “visioni del mondo” legate alla lotta di classe. Una sua opinione sull’anarchismo?
R. Il mio giudizio filosofico sull’anarchismo è sostanzialmente molto positivo. Esprime una tendenza umana all’autogoverno, all’autogestione al di fuori degli apparati di stato. Personalmente non sono anarchico perché mi accontenterei di uno stato autenticamente democratico. Ritengo che il potere sia sempre un male, ma talvolta è un “male necessario”, come le medicine. Spesso fanno anche male, ma talvolta sono necessarie per sopravvivere. Non credo ad uno stato completamente senza legge, alla possibilità umana di autogestirsi integralmente, al di fuori di un apparato normativo. Non condivido quindi l’utopia anarchica, ma l’anarchismo rimane ovviamente una delle utopie migliori. La definirei un’idea regolativa, nel senso kantiano.
Gianni Sartori (2007)

author by Gianni Sartoripublication date Fri Nov 06, 2015 23:38author address author phone Report this post to the editors

IN MEMORIA DI GUIDO BERTACCO

(Gianni Sartori - 2015)

Ho rinviato a lungo prima di scrivere questo ricordo del compagno Guido Bertacco scomparso già da alcuni mesi (marzo 2015). Aspettavo forse che qualche altro sopravvissuto del MAV (Movimento AnarchicoVicentino) prendesse l'iniziativa? Difficile, dato che ormai in giro non è rimasto nessuno o quasi, almeno per quanto riguarda la militanza. Oltre a Guido, nel corso degli anni se ne sono andati per sempre Anna Za, Laura Fornezza, Mario Seganfredo, Patrizia Grillo, Nico Natoli....E vorrei qui ricordare anche Giorgio Fortuna, sicuramente un libertario, presente fino alla fine alle iniziative contro il Dal Molin.
Qualcuno che aveva conosciuto le dure galere di stato per militanza ha poi cercato altrove un posto dove ricominciare a vivere; altri ancora sono semplicemente invecchiati...
Guido (assieme a Claudio Muraro e Rino Refosco, se non ricordo male) aveva partecipato all'esperienza milanese della Casa dello Studente e del Lavoratore. Un breve riepilogo: nell'aprile del 1969 gli studenti occupavano l'Università Statale di Milano in via Festa del Perdono. Quasi contemporaneamente veniva occupato un vecchio albergo a Piazza Fontana. Qui venne applicata una rigorosa autogestione e l'ex albergo ora denominato “Casa dello Studente e del Lavoratore” subirà presto sia gli attacchi dei fascisti (con il lancio di alcune molotov) che una indegna campagna di stampa criminalizzante. Lo sgombero per mano della polizia scatterà all'alba, come da manuale, per concludersi con numerosi arresti. In un libro fotografico di Uliano Lucas c'è l'immagine del processo ad alcuni anarchici in cui si riconoscono un paio dei sopracitati vicentini; in qualità di pubblico rumoreggiante, a pugno chiuso, per il momento non ancora imputati. Secondo una leggenda locale Guido sarebbe partito da Vicenza ancora m-l per ritornarvi anarchico. A Vicenza comunque i tre fondarono immediatamente il MAV e aprirono in Contrà Porti una sede, destinata ad essere perquisita spesso, soprattutto dopo gli eventi del 12 dicembre. I visitatori venivano accolti da uno striscione un pochettino situazionista “Date a Cesare quel che è di Cesare: 23 pugnalate!”. Del resto era questo il clima dell'epoca.

Di tutto l'impegno di una quindicina di compagni (più o meno sempre gli stessi con qualche abbandono e qualche rientro in corso d'opera) tra la fine degli anni sessanta e i settanta resta poco. Forse i reperti più consistenti (entrambi gelosamente conservati dal sottoscritto) sono una bandiera rossa con A cerchiata nera (non proprio ortodossa, ma ha sventolato ai funerali del Borela, ardito del popolo di Schio) e un pacco di volantini di cui credo non esistano altre copie. Sono quelli distribuiti nel corso di un paio d'anni (1971-1972), regolarmente, almeno uno ogni 15 giorni, davanti al locale manicomio (così era chiamato, senza eufemismi) in epoca pre-Basaglia; quasi una lotta d'avanguardia per chi aveva letto, se non “La maggioranza deviante”, almeno”Morire di classe”. Denunciavamo le violenze, i ricoveri coatti (una sorta di TSO di massa) nei confronti di soggetti scomodi (“disadattati” secondo l'ideologia dominante) improduttivi, sostanzialmente non addomesticati. Dall'interno c'era chi ci sosteneva, informava, guidava: il compianto medico Sergio Caneva, fedele alla sua giovinezza partigiana, destinato a morire proprio mentre teneva una conferenza sulla Resistenza.
Il lavoro del MAV era stato apprezzato dai compagni del Germinal di Carrara
(da non confondere con l'omonimo gruppo anarchico -e giornale- di Trieste con cui comunque si era in contatto) dove avevamo mandato copia dei volantini e degli articoli comparsi sulla stampa locale. Alfonso Failla, per anni direttore di Umanità Nova e Umberto Marzocchi (volontario in Spagna nelle Brigate Internazionali con Camillo Berneri; toccò a lui nel maggio 1937 riconoscerne il corpo dopo che era stato assassinato dagli stalinisti) ci invitarono per prendere contatti ed eventualmente allargare il discorso contro le istituzioni totali. Partimmo in quattro nel novembre del 1972. Oltre a me e Guido (l'unico con la patente e l'auto, gli altri tre eravamo tutti motociclisti) facevano parte della delegazione Stefano Crestanello e Mario Seganfredo (detto Mario cavejo per evidenti motivi) che quattro anni dopo perì in un incidente stradale. Dopo aver deciso di cogliere l'occasione per visitare anche altri gruppi lungo la strada, ci stipammo nell'auto di Guido. Prima tappa Reggio Emilia (o era Parma?) dove, nella biblioteca del locale gruppo anarchico, ci accolse un incredibile compagno ottantenne. Aveva fatto tutto: l'ardito del popolo, la Spagna, la Resistenza, l'USI...
Conservo il ricordo di un intenso abbraccio tra lui e Guido, quasi un passaggio di testimone. Alla notte, dopo aver fatto la conta, Guido e Mario dormirono in macchina (dove c'era posto per due), io e Stefano all'addiaccio nel sacco a pelo. In seguito ci demmo il cambio, credo.
Il giorno dopo, sosta in un bar sulla sommità di un passo appenninico dove percepii una sensazione da “confine del mondo”. Ricordo delle rocce rossastre, color ruggine (erano forse le Metallifere del mistico ribelle Lazzareti?) e Mario suonò un pezzo rock (suscitando qualche sguardo perplesso negli avventori, peraltro cordiali) sul vecchio pianoforte che completava l'arredo. Poi Carrara: due giorni a parlare, discutere, nella mitica sede del Germinal con Failla e Marzocchi, combattenti inesausti.
Alla parete la risoluzione di Kronstadt (quella del 1921) e un'immagine di Rosa Luxemburg.
Dopo una discussione, amichevole ma tesa, su CHE Guevara (che io comunque difendevo a spada tratta, con spirito ecumenico), Marzocchi mi regalò un libro su Malatesta. A Genova pernottammo da un amico di Guido, un musicista. Dopo Milano Mario scese nel cuore della notte proseguendo per Bologna, dove aveva una morosa, in autostop. La nostra scorribanda si concluse a Peschiera. Giungemmo in tempo per partecipare alla manifestazione davanti al carcere militare che in quel periodo ospitava soprattutto obiettori totali, in maggioranza testimoni di geova e anarchici (tra cui un nostro compagno vicentino, Alberto P.). Ci fu anche una carica dei carabinieri. Da Carrara portammo a Vicenza un pacco di manifesti (poi denunciati e sequestrati) per Franco Serantini, il compagno assassinato a Pisa qualche mese prima (maggio 1972). Scoprii al ritorno che lo stato si era premunito di avvisare la mia famiglia del fatto che mi trovavo a Carrara in un covo di sovversivi (il Germinal) e non, come avevo elegantemente detto, a Padova per ragioni di studio (all'epoca alternavo periodi di facchinaggio con la militanza e improbabili percorsi universitari). Gentile da parte sua, lo stato intendo.
Che altro dire di Guido? Forse di quella volta che lo incontrai in corso Palladio con un paio di bastoni diretto al liceo dove il giorno prima i fascisti avevano sprangato alcuni compagni (in particolare, il futuro storico Emilio Franzina e Alberto Gallo, figlio del noto avvocato, figura di spicco della Resistenza vicentina). Mi invitò a partecipare alla sua “spedizione punitiva” e sinceramente non me la sentii di lasciarlo andare da solo “incontro al nemico”, ma in cuor mio sperai ardentemente che quel giorno i fasci si fossero presi un giorno di ferie (anche perché qualche giorno prima era toccato anche a me di partecipare ad uno scontro dove me la ero cavata con qualche legnata, in parte restituita). Ma se penso a Guido lo rivedo in piedi, in tuta da imbianchino, barba e capelli lunghi, aspettare la figlioletta all'uscita dalla scuola elementare di via Riello. Immancabilmente, ogni giorno. Proletario, ribelle e rivoluzionario, senza mai perdere la tenerezza.
Ci mancherà.

Gianni Sartori

author by Gianni Sartoripublication date Fri Nov 20, 2015 01:11author address author phone Report this post to the editors

Una breve precisazione. Come mi ha fatto notare Franco Pianalto (vecchio militante operaio degli anni sessanta, passato dal PCI ai marxisti-leninisti e in seguito anche per Lotta comunista; oltre che amico di Bertacco) nell’articolo su Guido avevo dimenticato il ruolo fondamentale nel lavoro di controinformazione sul manicomio di Vicenza svolto da un altro CANEVA, Sante (quasi omonimo del medico e partigiano Sergio Caneva, ma non parente). Provenivano direttamente da lui gran parte delle informazioni sulla vergognosa situazione in cui versavano i reclusi e per il suo impegno subì angherie e vere e proprie persecuzioni che contribuirono, nel corso degli anni successivi, ad avvelenargli non poco la vita. Ancora negli anni sessanta, in collaborazione con un altro sindacalista e socialista, un Sartori, aveva denunciato l’assurda situazione per cui i reclusi vennero in pratica costretti per quasi due anni a “mangiare con le mani” in quanto i due medici che dirigevano il lager, pardon il manicomio, non trovavano un accordo sui cucchiai. Mentre per uno dovevano essere di legno, per l’altro di stagno. Non è una barzelletta; perfino il Giornale di Vicenza dovette occuparsene con un articolo carico di, per quanto moderata, indignazione. Questa era la realtà delle istituzioni totali prima del tanto vituperato “68”! A entrambi i due Caneva (Sante e Sergio) rendiamo quindi il dovuto onore.
GS

author by Gianni Sartoripublication date Wed Dec 16, 2015 17:48author address author phone Report this post to the editors

VADE RETRO RETRONE!”
(… dove si svela che fine avesse fatto il mitico canotto del Club Speleologico Proteo dopo essere stato impietosamente “rottamato”)
Gianni Sartori

Il percorso lungo cui si snoda il fiume Bacchiglione attraversando Vicenza è relativamente noto. Così come i ponti che lo scavalcano (ponte Novo, ponte Pusterla, ponte degli Angeli…). Meno conosciuto quello del più sinuoso fratello minore Retrone. Anche se la nascita negli anni novanta del Parco Fluviale del Retrone in zona Ferrovieri (da un progetto di Elena Barbieri che si era inspirata al parco fluviale di Pforzheim, in Germania) ha sicuramente contribuito a renderlo più familiare ai vicentini.
Una coincidenza. L’idea per la prima stesura di questo racconto (rimasto finora inedito e sepolto in uno scatolone tra riviste e volantini) risale ad un ventennio fa, quando insieme alla Barbieri, all’epoca responsabile di Legambiente di Vicenza, percorsi le sponde del degradato Retrone (tra scarichi industriali e fuoriuscite di un depuratore malfunzionante) nel tratto che da S. Agostino, sfiorando i Colli Berici, si dirige verso la città. Scopo del nostro sopraluogo tra rusari, ortighe, bise e pantegani, individuare un’area su cui fosse possibile la realizzazione di un parco fluviale strappando alla metastasi edilizia quel residuo brandello di campagna. Rive selvagge, impraticabili. Con il senno di poi, potevano restarsene anche così che la biodiversità aveva solo da guadagnarci. La fangosa ricognizione ebbe comunque un effetto collaterale. Riportarmi alla memoria quel viaggio semiacquatico ormai dimenticato e sepolto (o meglio, affondato). Un pretesto per riattivare la memoria, dato che il fluire dei ricordi ha profonde analogie, ancora in parte inesplorate, con lo scorrere dell’acqua.
Aprile 1975. I giorni dell’ira a Milano, Torino e Firenze con assalti alla sedi missine. A Vicenza un modesto corteo antifascista per la morte di Varalli, Zibecchi e Micciché. Niente di speciale, anche se già si andava coagulando (tra ex di Potop, di Lc, qualche anarchico, perfino qualche ex figiciotto e cani sciolti…) la locale versione di Autonomia Operaia che nel giro di pochi mesi avrebbe trasformato il vicentino (soprattutto l’Alto Vicentino) in una delle aree calde del nord-est. Per quel giorno fui un operaio assenteista…
Ma una manifestazione non bastava per esorcizzare quel senso di morte. Complici la giornata quasi estiva e la frustrazione (o l’eccesso di adrenalina) decisi su due piedi che era giunto il momento di tradurre in pratica un vecchio progetto a lungo solo vagheggiato. Attraversare Vicenza discendendo il Retrone a bordo del vecchio canotto che per un decennio era stato utilizzato dal gruppo speleologico “Proteo” per superare il laghetto di Caronte al Buso della Rana, all’epoca ancora la grotta più lunga d’Italia. Canotto considerato ormai quasi inservibile o comunque pericoloso dato che periodicamente si sgonfiava nei momenti meno opportuni. Sentimentale come al solito, non me l’ero sentita di vederlo mandare in discarica e lo avevo acquistato cercando poi di ripararlo alla meglio con toppe da bicicletta. Affrontare quel fiume, in odore di fogna a cielo aperto, assumeva i contorni di una sfida; non tanto ai pantegani e alla leptospirosi, ma più o meno inconsapevolmente, al conformismo, all’omologazione, ai binari precostituiti dei percorsi quotidiani (un po’ situazionista, dai…). Una reazione anticipata e preventiva all’infrangersi di qualche sogno in più come gli avvenimenti di quei giorni preannunciavano inesorabilmente. Insomma, “prima di cadere sul fango della via…” preferivo andare ad impantanarmi per bene da solo. Compagno di navigazione, il dottor Dino Sgarabotto già in procinto di partire volontario per il Kenia con il CUAMM. Entrammo in acqua al ponte del quareo, non lontano dalla basilica romanica di Sant’Agostino e dalla zona industriale. In due in un canotto da un posto e mezzo scarso, un groviglio di gambe e pagaie con i piedi che sporgevano e lambivano il liquame, pardon l’acqua. Unico conforto, il robusto rivestimento in tela cerata che aveva dato buoni risultati anche sugli infidi, irregolari e taglienti fondali dei laghetti sotterranei.
Si procedeva tranquillamente, nonostante le numerose e inquietanti bocche di scarico che riversavano copiosamente sostanze multicolori di incerta origine e da cui cercavamo di tenerci alla larga. Sapevamo di essere in prossimità di luoghi a noi ben familiari, ma al momento non identificabili data l’insolita prospettiva. Le “Valli di sant’Agostino” dove fiorivano gli iris di palude, quelli gialli; la palestra di roccia della Gogna dove si poteva ancora incontrare d’inverno qualche esemplare di picchio muraiolo; la voragine Bedin (non ancora scandalosamente riempita di materiali); la chiesetta di san Giorgio, un’eredità longobarda…
In questo tratto il Retrone lambisce le estreme propaggini dei Colli Berici e il suo corso ne riproduce, mantenendosi a distanza, il profilo in pianta. Costeggia poi l’area a ridosso della stazione ferroviaria e si dirige verso il centro storico. Dopo il ponte della ferrovia si intravedeva la passerella per pedoni (e ciclisti con bici a mano), abituale e indispensabile scorciatoia per la Gogna e per sfuggire momentaneamente al traffico. Come la passerella, anche alcuni grandi alberi (piope) qui svettanti vennero in seguito sacrificati per una nuova arteria. Se non ricordo male, per accedere alla passerella si attraversava un praticello incolto (con figari e un paio di statue ricoperte di edera) da dove si poteva scendere alla sponda del fiume tra pietre e mucillagini verdastre. Qui un giorno rinvenni un vistoso esemplare di carpa a specchi, boccheggiante e arenata tra le pietre. Le periodiche, micidiali e non certo casuali fuoriuscite notturne di scarichi industriali non lasciavano scampo alle creature del fiume. In altre occasioni avevo scorto esemplari di luccio trascinati, a decine, dalla corrente e ormai senza forze. Da allora qualcosa è cambiato? Temo che ormai (nonostante l’installazione di un depuratore, ma periodicamente sommerso dalle alluvioni) carpe e lucci siano estinti. Anche perché, se in teoria la coscienza ambientale è aumentata, la produzione industriale (e i suoi effetti collaterali) molto di più.
Dopo aver costeggiato il Campo Marzo e superato il punto in cui la Seriola si riversa nel Retrone (una cascatella frequentata dalle cutrettole che all’epoca trasportava insieme all’acqua anche qualche pesce rosso evaso dai Giardini Salvi), riconobbi un albero, una paulonia, di cui negli anni cinquanta (in epoca non sospetta) avevo impedito lo sradicamento per gioco da parte di alcuni coetanei. Per la cronaca, è ancora lì, vivo, vegeto e vegetale. Parentesi di archeologia industriale. In questo punto, fino agli anni ’20, le acque della Seriola venivano catturate da una conduttura che scavalcava il fiume per andare ad alimentare la Filanda Sperotti sulla riva opposta.
Fuoriuscendo da una delle due arcate di ponte Furo venimmo intercettati da una squadra di turisti impegnati a immortalare uno degli scorci più suggestivi (“fa tanto Venesia…”) della città del Palladio. Anche se, bisogna dirlo, a pelo d’acqua quel giorno il fetore era irrespirabile. La vicinanza ti frega, a volte.
Sbarcammo per una breve sosta sulla scalinata consunta di un vecchio imbarcadero. Ad additarci il cammino, il braccio proteso e consumato dal tempo di una statua di san Martino. Forse in passato sosteneva una lampada per i naviganti nottambuli. Coincidenza, si tratta proprio della scalinata e della statua che si intravedono, avvolti nella nebbia del fiume, all’inizio del film di Mazzacurati “Il prete bello” (tratto dal romanzo di Parise) del 1989. Sulla riva opposta, sovrastando alberi e case, troneggiavano la cupola verde rame della Basilica (ricostruita dopo i bombardamenti del 1944) e la Torre Bissara con la caratteristica, lieve, inclinazione. Qui avremmo dovuto risalire e concludere l’avventura. Ma, dopo un rapido consiglio di guerra e aver rigonfiato per bene (con una pompa da bicicletta) il canotto, decidemmo di riprendere la navigazione nonostante le incognite. Fino a quel punto eravamo sopravvissuti (e il nostro natante non si era sgonfiato neanche tanto), ma cosa ci avrebbe riservato il tratto successivo? Immerso tra le abitazioni, da qui il fiume ci risultava meno conosciuto. Transitammo serenamente sotto l’unica arcata di ponte san Paolo cercando invano sulla riva destra i resti dell’imbarcadero del mitico “ammiraglio” Pivetta, ricordato anche da Goffredo Parise nelle sue opere ambientate a Vicenza, .
Gradualmente, tra ponte san Paolo e ponte san Michele (un autentico scorcio veneziano a Vicenza) il numero dei pantegani era andato aumentando con ritmo esponenziale. Le simpatiche bestiole spuntavano da ogni pertugio e orifizio, come nell’incubo di un etilista in crisi di astinenza. Zampettavano agilissimi sui bordi in cemento delle rive, si intrufolavano nei tubi di scarico, attraversavano il fiume con noncuranza, da vera specie dominante.
D’altra parte erano a casa loro e noi eravamo gli intrusi. Intrusi che intanto facevano gli scongiuri pensando al precario equilibrio dell’imbarcazione. In prossimità del ponte delle Barche (si dice di origine romana) il viaggio divenne una vera calata agli Inferi.
Solo un’arcata era relativamente sgombra e accessibile. Riuscimmo a infilarla per puro caso, grazie più alla lieve corrente che alle nostre maldestre pagaiate (“pagaierete caro, pagaierete tutto…”, una condanna biblica). Nell’altra arcata, completamente ostruita, si era formata una barricata di ramaglie e immondizie varie. Appena superato il ponte, ci accorgemmo che l’acqua scura (limacciosa?) del fiume era solcata da un rivolo rosso vivo. Eravamo in corrispondenza del macello comunale (poi trasferito in zona Est) da dove sgorgava una sorgente di sangue fresco insieme a frattaglie di ogni genere. Attorno si affollavano orde di ratti e alcuni esemplari di columba livia metropolitana, magri e spennacchiati come avvoltoi in miniatura. Mi ricordai (con un senso di disgusto che preannunciava la mia scelta vegetariana) della lunga teoria di anelli in ferro sul muro esterno, all’inizio di viale Giuriolo, dove talvolta avevo intravisto i vitellini qui legati in attesa dell’esecuzione. Anche se all’epoca non avevo ancora ben colto il nesso tra oppressione umana e oppressione animale, già allora tutto ciò mi appariva ignobile. Venti anni dopo, salvando un vitellino (Alex, in memoria di Langer) dal mattatoio, avrei in qualche modo, simbolicamente, riscattato quella miopia che non ci permetteva (anche a noi compagni) di ribellarci per le sofferenze inflitte ai nostri fratelli animali. Ma questa è un’altra storia.
Tornando al Retrone (anzi “nel Retrone”), vorrei precisare che non ero (e non sono) particolarmente suggestionabile nei confronti del piccolo popolo animale. Apprezzo la presenza di chirotteri svolazzanti nelle grotte (evitando comunque di frequentarle in inverno, dato che un brusco risveglio dal letargo potrebbe risultare fatale per le simpatiche creature) e nutro profonda simpatia per natrici, ramarri, rospi (“più rospi, meno ruspe”), salamandre, talpe (le ciupinare) e altre creature. Rispetto assoluto anche per le vipere (contando sulla reciprocità) e non mi inquietavo se nel sacco a pelo si rintanava qualche scorpioncino. Una volta, in un casolare abbandonato di Rio Freddo, rinvenni (e trasportai in luogo più appropriato) un’intera famiglia, la madre con i cuccioli sul dorso. E non credo di essere particolarmente prevenuto nemmeno nei confronti del ratto di chiavica di cui con il tempo ho imparato ad apprezzare le indubbie doti (l’alto quoziente intellettivo, lo spirito comunitario, il fatto che abbia contribuito a debellare la peste…).
Ma forse in quella circostanza era stato superato un limite, la mia personale soglia di tolleranza.
Proseguimmo oltre infilando il tratto di Retrone che qui corre parallelo al Bacchiglione fino alla stadio Menti. A separare i due fiumi soltanto il viale dedicato al comandante partigiano Antonio Giuriolo di Giustizia e Libertà. Gli anni trascorsi hanno contribuito a cancellare qualche ricordo. Sicuramente avrò pensato al mio incontro di qualche anno prima con una famiglia di Sinti in fuga nella notte nebbiosa (v. “Correva l’anno 1970…” su Germinal n. 113-114)
Ricordo invece che percorremmo incerti e sempre più lentamente l’ansa, all’epoca circondata da alberi frondosi, retrostante Piarda Fanton. Tutti ancora presenti all’appello i grandi platani di viale Margherita destinati loro malgrado ad un attimo di celebrità quindici anni dopo. Un contenzioso tra amministrazione comunale che intendeva abbatterli tutti per far posto ad un ampliamento stradale e una solitaria ambientalista (Elena Barbieri, sempre lei!) che in una giornata di pioggia sottile si piazzò davanti alle ruspe per impedire l’ennesimo ecocidio riuscendo a salvarne tre su quattro.
Immersi nell’alveo profondo, tra antiche case e muraglie, discutemmo del misterioso e, stando a quanto ci raccontavano alcuni parenti operai al lanificio Rossi, lunghissimo tunnel in cui il Retrone si infilava come un fiume carsico e dove l’azienda scaricava coloranti e detergenti in quantità industriale. Che fare? Decidemmo di sbarcare e concludere la nostra escursione fluviale. Ormai in vista del ponte dei Marmi, ci portammo a ridosso della riva destra che apparentemente sembrava più abbordabile. Ricoperta d’erba, ci aveva tratto in inganno. Il suolo era in realtà un amalgama, un appiccicoso e fetido impasto di fanghiglia, liquami e oleosi scarichi industriali. Qui il capitalismo riversava le sue viscere maleodoranti. Appena posai il piede, mi venne risucchiato. Sprofondai in quelle infette sabbie mobili fino a metà polpaccio riuscendo a fatica ad estrarre l’estremità resa ormai nauseabonda. Spingemmo nuovamente il cannotto nella corrente e affrontammo l’ignoto destino. Dopo ponte dei Marmi, per un breve tratto, il Retrone si riavvicina al Bacchiglione, nei pressi del monumento ai Dieci Martiri (fucilati dai fascisti proprio sulla striscia di terra tra i due fiumi). Poi l’antro buio ci divorò totalmente, pur lasciando intravedere nella penombra un luccichio dovuto alle sottili increspature dell’acqua. Sperando di non incontrare un dislivello eccessivo, una cascatella, proseguimmo trasognati tra indistinti pilastri in cemento (le pupille si andavano allargando) ormai nelle viscere dell’impianto industriale, detto el stabiimento (senza la “elle”), dal caratteristico color zucca. Riemersi alla luce e al calore, il primo saluto da una viatara (gallinella d’acqua), una madre con pulcini neri al seguito. Ignara o indifferente rispetto all’inquinamento, aveva scelto di nidificare su questo scampolo di riva ricoperto da uno stentato canneto, un po’ squallido ma al riparo dalle doppiette. Poco dopo transitammo sotto una delle due passerelle di corde, quella lesionata da un’esplosione che mio padre aveva attraversato a forza di braccia durante il bombardamento del 1944 (v. “Mio padre partigiano” su A-Rivista anarchica n.289). Eccitati per lo scampato pericolo, ci lasciammo trasportare fino alla confluenza con il Bacchiglione. Con le pagaie sollevate e cantando inni sovversivi, sfilammo sotto gli occhi allibiti di alcuni pensionati che, bici alla mano, stavano tranquillamente discorrendo sulla riva dove all’epoca iniziava l’aperta campagna.
Gianni Sartori

nda Ma cosa c’entra ‘sto pezzo sul Retrone con la speleologia? C’entra, c’entra, almeno indirettamente.
Intanto lungo il corso del Retrone c’era un buon esempio di “speleologia urbana”, il tunnel sotto il lanificio Rossi, anche se all’epoca l’esplorazione di cunicoli, catacombe e fognature (possibilmente in disuso) non andava ancora di moda. Per non parlare poi della miriade di fori, orifizi e aperture altamente evocativi (in senso speleologico s’intende) che si spalancavano lungo l’infernale percorso.
E poi quelle giornate di rivolta dell’aprile 1975 sono entrate di diritto nella storia della speleologia italiana. Da quando vennero ricordate dallo speleologo (e compagno) torinese Andrea Gobetti nel suo “Una frontiera da immaginare” dove si parla soprattutto di grotte, ma non manca qualche riferimento alle lotte degli anni settanta e in particolare di quelle giornate dell’aprile 1975. Giornate in cui Andrea, amico di Tonino Micciché (uno dei tre compagni ammazzati in quei giorni), ebbe una parte attiva. Tanto attiva che al nipote di Piero Gobetti costò poi la galera. Ma è soprattutto il “mezzo” (il canotto) a qualificare l’articolo come parte integrante della speleologia vicentina. Almeno di quella non ufficiale, considerando che all’epoca il sottoscritto era già stato espulso dal sodalizio per eccessiva esuberanza (anche se ho sempre pensato che la politica c’entrasse qualcosa, visto che la proposta di espulsione era venuta da un democristiano di destra). Il “mezzo”, dicevo. Ed è noto che “il mezzo è il messaggio”. Magari chi l’ha scritto non pensava ai mezzi di trasporto, ma tant’è. Scripta manent e poi ognuno ci vede quel che gli pare. Per concludere. Avevo conservato per molti anni il nobile reperto, anche quando era ormai inservibile, pensando di poterlo un giorno donare a qualche Museo della Speleologia Prealpina Triveneta insieme a vetuste scalette e ingombranti lampade a carburo, convinto che chi perde la memoria del passato rinuncia a capire il presente e si lascia fregare il futuro. Purtroppo sembra essere scomparso dopo l’ennesimo trasloco. Peccato. gs

 
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