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IN RICORDO DI IVAN DELLA MEA

category italia / svizzera | cultura | altra stampa libertaria author Friday January 15, 2016 00:59author by Gianni Sartori Report this post to the editors

vita, opera e canzoni di un comunista libertario

In ricordo di un compagno cheti considerava tanto comunista quanto anarchico, coerentemente. Da Marcinelle a Serantini, da Avola al Leoncavallo...sempre presente nelle lotte proletarie

UN RICORDO DI IVAN DELLA MEA A 20 ANNI DALL'ULTIMO INCONTRO
(Gianni Sartori)

Ivan Della Mea era nato il 16 ottobre 1940. Se ne è andato il 14 giugno del 2009: un vuoto incolmabile.
Per quasi 50 anni le sue canzoni di lotta e di malinconia, le sue parole di coraggio, il suo modo di essere “compagno”, sono stati un esempio per migliaia di militanti, giovani e non. Ha fatto musica e poesia contro la società dei consumi, ha manifestato contro l'oppressione, si è battuto per una libertà insieme anarchica e comunista, da autentico rivoluzionario. Questo era (è) Ivan Della Mea, un compagno che anche da “vecchio” conservava lo spirito combattente di un ragazzo, un artista irriducibile: “Con gli oppressi contro gli oppressori. Sempre!”.

Lo avevo già incontrato negli anni settanta in un paio di occasioni ma solo l'ultima volta, nel 1995, mi ero deciso a intervistarlo. L'occasione era stata la “Festa RAP” (nel senso di “Rossa, Antifascista, Proletaria”) organizzata a Vicenza dal “Collettivo SPARTAKUS”, da Rifondazione Comunista e dalla Lega per i diritti e la liberazione dei popoli (di cui all'epoca, per quanto indegnamente, ero il responsabile per Vicenza) con la collaborazione di alcuni Centri sociali e gruppi vicentini (“Stella Rossa” di Bassano, “Alter-media” di Schio, “La tienda”, il Collettivo Cà Balbi, gli anarchici bassanesi del “Pisacane”....). Una risposta alla squallida manifestazione di qualche mese prima, nel 1994, dei gruppi neonazisti che avevano letteralmente invaso la città del Palladio, medaglia d'oro per la Resistenza. Ancora non lo sapevo ma, rinviando di continuo per un altro “aggiornamento” sulla sua militanza cantata, non lo avrei più rivisto. Recentemente ho ritrovato gli appunti di quella lunga intervista-conversazione e mi è parso giusto riproporla per ricordare Ivan e le sue canzoni.

NERONE
Nerone era un cane che per anni era stato legato alla catena, in un deposito dalla parte dei Navigli, a far la guardia. Divenuto vecchio venne slegato, portato altrove e abbandonato, come da manuale.
La sua condizione passò “da quella di schiavo a quella di liberto affamato”. Ritornò nei paraggi, lì dove aveva trascorso tutta la sua vita, cercando una qualche convivenza, un rapporto con gli umani, una mediazione tra una carezza, un tozzo di pane e tante pedate.
Una sera nei pressi del vecchio capannone alcuni giovani avevano acceso un fuoco ed erano intenti a “farsi” di eroina. Nerone, afflitto da cronica solitudine, si avvicinò per fare amicizia ma qualcuno, già sotto l'effetto della droga, gli sparò un colpo di pistola in testa.
Il giorno dopo toccò proprio a Ivan e al figlio ritrovare il cadavere della povera bestia. Ivan ne riportò un'emozione fortissima anche per la disperazione del bambino. E nacque così la canzone per questo cane “morto in guerra”, vittima inconsapevole dei mille egoismi e miserie di un mondo imperniato sull'usa e getta, tanto per degli umani che delle bestie.
Era una delle tante storie che Ivan Della Mea raccontava, accompagnato dalla sua chitarra: una canzone in cui riversava la sua profonda umanità, il suo rifiuto di restarsene indifferente di fronte alle tante ingiustizie del mondo, grandi o piccole che siano. Tra l'altro questa non è l'unica sua canzone “animalista” ante litteram (o meglio: “antispecista). Ricordate “El me Gatt”? Ivan evidentemente è sempre stato un uomo incapace di girarsi dall'altra parte, uno che sentiva veramente sulla propria pelle lo schiaffo dato a chiunque in qualsiasi parte del mondo (citazione guevarista, ovviamente). Roba d'altri tempi.

VALE LA PENA
Va anche detto, purtroppo, che riascoltandolo oggi la malinconia rischia di essere il sentimento prevalente. Le sue canzoni legate spesso ai numerosi lutti del proletariato (dall'Ardizzone a Che Guevara, da Ciriaco Saldutto a Franco Serantini, da Avola a Marcinelle), ascoltate 40 e passa anni fa alimentavano quella “rabbia antica” che oggi come oggi rischia di apparire un reperto, un fossile o addirittura un “sentimento da zombies” come mi ha poco gentilmente fatto osservare un ex compagno, all'epoca operaista, oggi rassegnato.
Eppure credo valga ancora la pena di ascoltarlo. Non solo perché molte sue canzoni fanno ormai parte della storia delle lotte proletarie, ma anche per la profonda umanità che le pervade, testimonianza sofferta di un modo diverso di concepire i rapporti umani rispetto all'ideologia dominante.*

L'UOMO BIANCO
La vera e propria mutazione antropologica avvenuta negli ultimi decenni (e che ha contaminato anche buona parte delle classi subalterne) era stata prevista e temuta da Della Mea in epoca non sospetta: quasi avesse avuto una premonizione.
Era stato lui stesso a dirmelo:
“Quando cantavo Io so che un giorno in fondo non credevo all'esistenza dell'”Uomo bianco vestito di bianco” che ossessionava quel mio carissimo amico poi finito al manicomio. Pensavo che a me non sarebbe mai capitato di vederlo e adesso invece lo vedo anch'io, quasi ogni giorno, in televisione”. Ricordo che l'incontro risale al 1995 e penso sia inutile precisare a chi si riferisse il buon Ivan.

D. Usi ancora il vecchio repertorio nei concerti? Mi riferisco ai tuoi lavori degli anni sessanta, da “Ballata della piccola e grande violenza” a “Forza Gioan l'dea non è morta” (noto anche come “Il rosso è diventato giallo”)?
R. Suono spesso canzoni come “Ieri mio padre è morto” o “El me gatt” che venne definita da Roberto Leydi una canzone anarcosindacalista a tutti gli effetti. Posso anche essere d'accordo con l'”anarco” ma non sono mai riuscito a capire il perché del “sindacalista”...Ho invece qualche difficoltà a suonare “Il rosso è diventato giallo”, ma solo per motivi tecnici, non politici. Nel disco molti pezzi venivano suonati da Paolo Ciarchi (della Comune), molto più bravo di me con la chitarra. Ho recuperato anche “A questo punto il prezzo qual'è” (famosa per aver ripreso lo slogan delle Pantere Nere “brucia, ragazzo, brucia” ndr), aggiornandola e aggiustandola un po'. Nel testo originario c'erano forse delle forzature a scapito di quel povero cristo di Cesare Pavese. Purtroppo devo riconoscere che Avola, Battipagli, Soriano Ceccanti, Marighela, Inti Peredo...(tutti citati nella canzone ndr) ormai alla maggior parte delle persone, soprattutto dei giovani, non dicono più niente. L'unico che conoscono è Guevara (e dopo altri 20 anni la situazione non è certo migliorata ndr).

CHI ERA GIOAN?

D. Meglio che niente con questi chiari di luna. A proposito, pecco anch'io di ignoranza e avrei qualche curiosità: chi era “Gioan” a cui spesso ti rivolgi? E chi era Costante, altra figura ricorrente nelle tue canzoni?
R. “Gioan” era Gianni Bosio. Costante era un contadino di Torrealta di Ponte del Giglio, in provincia di Lucca. Era un personaggio di grandi, diffusi, minuti saperi; la negazione di ogni esasperazione ideologica. Un uomo legato alla terra, al ciclo delle stagioni, al lavoro dei campi. Aveva una profonda, intima conoscenza di piante e animali, con una visione del mondo che evocava una sorta di mondo magico rurale. Noi viviamo in un mondo dove si parte dall'idea di uomo universale per poi scendere al concreto, al particolare. Nel mondo contadino avveniva il contrario, senza peraltro porsi il problema dell'universale.
Costante non era antifascista, almeno non in maniera consapevole, dichiarata. Però quando due suoi compaesani discesi in città e divenuti fascisti, vennero in divisa a casa sua per dirgli che stavano organizzando i giovani della zona, non fece altro che entrare in casa e, senza dire una parola, uscire con il fucile spianato. I due non si fecero più vedere.

D. Mi pare che ti riferissi a lui, a Costante, anche nella canzone “A questo punto il prezzo qual'è”, molto critica verso gli intellettuali alla Cesare Pavese (v. “...l'umore antico di un uomo costante...”)?
R. Io posso capire Pavese ma contrapppongo alla sua mitologia sul “paese”, sui campi, le colline, la luna e i falò, la realtà di Costante che invece il paese ce l'ha dentro. In un cero senso l'atteggiamento di Pavese equivale a quello odierno di certi “arancioni” o affini che vanno a vivere in campagna. Ma io credo che sia una questione filosofica o ideologica. Il senso materiale della terra o ce l'hai o non ce l'hai; non c'è ideologia che tenga.

UNA BALLATA PER FRANCO SERANTINI

D. Tu hai dedicato una ballata a Franco Serantini, il giovane anarchico assassinato a Pisa dalla polizia nel maggio 1972. Mi dicevi di averlo incontrato qualche volta a casa di tuo fratello, Luciano (Luciano Della Mea, scrittore, 1924-2003 ndr). Ricordo che tuo fratello ebbe un ruolo non indifferente nel denunciare il pestaggio subito da Franco (si costituì parte civile con Guido Bozzoni riuscendo a impedire la frettolosa, già richiesta, inumazione del cadavere di Serantini ) e nelle polemiche che poi sfociarono in due manifestazioni distinte a Pisa...
R. Franco Serantini era molto amico di mia nipote, Maria Valeria Della Mea, anarchica e figlia di Luciano, mio fratello. La ballata in realtà venne scritta da un numeroso gruppo di compagni di varia tendenza, dagli anarchici a Lotta continua. Io mi limitai ad alcuni aggiustamenti metrici e per la musica usai quella di una ballata dedicata a Felice Cavallotti.
A Pisa vi furono due manifestazioni perché c'era chi voleva a tutti i costi appropriarsi della morte di Franco, installarci la sua bandierina. Questa era, in sostanza, la posizione di adriano Sofri. In vece Luciano, mio fratello, riteneva che la formidabile ondata di sdegno e solidarietà che la morte del giovane anarchico (massacrato dalla Celere e poi lasciato crepare in carcere ndr) fosse troppo preziosa per farne una questione di bandiera. Alla fine si tennero due distinte manifestazioni: in una parlò Adriano Sofri, nell'altra Umberto Terracini.
D. E gli anarchici?
R. Se non ricordo male anche tra gli anarchici vi furono valutazioni diverse. Penso fossero più o meno “equamente” distribuiti tra le due manifestazioni. Tra l'altro pioveva che Dio la mandava. Di questo se ne ricordano bene tutti i partecipanti, tranne Marino che però sostiene di ricordarsi di essere stato istigato da Sofri ad ammazzare calabresi proprio in quella circostanza....
D. Usi ancora la “Ballata per Franco Serantini” nei tuoi spettacoli?
R. Sì, spesso. Naturalmente è una di quelle canzoni che richiede certe spiegazioni. Io le considero “canzoni d'uso per la memoria storica”.

...MOLTI VIETNAM...
D. C'è una tua vecchia canzone su Cuba, sul fatto che “dovere di ogni rivoluzionario è soltanto fare la rivoluzione...”Come la giudichi a tanti anni di distanza?
R. Quella su Cuba è del '67, quando appunto andai a Cuba. Si intitolava “Creare due, tre, molti Vietnam”. Non mi capita di cantarla spesso ma di sicuro non rinnego niente, anzi.
Il destino delle varie canzoni a volte è molto diverso. Poco fa mi parlavi di quella canzone che ho scritto su un fatto accaduto da queste parti (a Torrebelvicino, vicino a Schio ndr) e mi parlavi di un ex partigiano divenuto poi padrone di una fabbrica. Un giorno, agli inizi degli anni settanta, di fronte ad un picchetto di operai non trovò di meglio che tornare ad imbracciare il fucile per sparare nel mucchio (un operaio rimasto ferito perse un occhio ndr). Sinceramente me ne ero completamente scordato, hai fatto bene a ricordarmela. Altre mie canzoni invece sono entrate nel patrimonio storico della sinistra, come “Cara moglie”.
D. Possiamo riassumere a grandi linee la tua produzione?
R. Le mie prime canzoni risalgono agli inizi degli anni sessanta, con la “Ballata della piccola e grande violenza”. I dischi principali sono: “Io so che un giorno (con le ballate del Gioan); “Il rosso è diventato giallo”; “Se qualcuno ti fa morto”; “La balorda”; “La ringhiera” (sulla strage fascista di Brescia); “Fiaba grande”; “La piccola ragione di allegria” (su mio fratello); “Su da dio, giù da bestia”, un lavoro sulle contraddizioni, sull'emarginazione metropolitana e sulle risposte di alcuni settori giovanili, in particolare sulla droga. Risale al '77, in coincidenza con l'incremento dei morti per overdose.
Per i cent'anni dalla morte di Carlo Marx, in collaborazione con l'Università di Urbino, ho fatto “Carlet”. Poi, finita ormai l'esperienza dei Dischi del Sole, ho continuato a scrivere libri.
D. Ce li puoi elencare?
R. Con l'editore Bertani (il mitico Bertani di Verona...ndr) ho pubblicato “Fiaba d'orso, di bagato e di un giorno centenario”, su come ho vissuto il centenario della morte di Marx. Poi, per Interno Giallo, “Il sasso dentro”, un romanzo nero metropolitano. Con “Se nasco un'altra volta ci rinuncio” ho vinto il premio Forte dei Marmi. Poi c'è stata “Cantata Ambrosiana” e l'ultimo, per ora, “Un amore di luna” edito dalla Granata Press (ricordo che Ivan ha scritto anche moltissimi articoli per l'Unità, Il Manifesto, Linus...ndr).
D. Senti, qui siamo a due passi da Padova. Mi viene in mente un episodio (di cui hai anche raccontato su Linus...) che ti ha visto schierato a fianco degli “autonomi” del Centro Sociale “PEDRO” contro alcuni “benpensanti di sinistra” (diciamo così...) patavini...?
R. Sì, mi ricordo i fatti di cui parli...Risalgono al 1987, in occasione di un concerto organizzato dall'ARCI di Padova nel Salone dei Giganti. I giovani compagni del “PEDRO” (un compagno assassinato dalla polizia a Trieste nel 1985 ndr), sostenendo che le mie canzoni esprimevano contenuti molto vicini ai loro, chiesero con molta urbanità di poter esprimere il loro pensiero nel corso di un seminario pomeridiano, sollevando soltanto le obiezioni di un professore universitario. Mi chiesero poi di poter fare un intervento, leggere un loro comunicato durante l'intervallo del concerto della sera. Naturalmente diedi il mio consenso. Salirono sul palco con uno striscione e lessero il comunicato suscitando le ire di quel professore universitario che diede una sberla ad un compagno del centro sociale. Costui evidentemente non aveva ben interiorizzato la nota massima evangelica e rispose con un pugno, a mio avviso giustificato. La mattina dopo veniamo a sapere che il ragazzo del centro sociale era stato denunciato. Andai subito in questura con il responsabile dell'ARCI per dichiarare che i ragazzi avevano avuto il permesso di intervenire e che il primo a menare le mani era stato quel professore. Ricordo che la cosa mi fece incazzare e scrissi quell'articolo per Linus. Si incazzò anche il PCI (nei miei confronti) e io tornai a Padova per fare un concerto al “PEDRO”. Tutto qui.
D. L'ultima volta che ti ho visto è stato in televisione. Suonavi e cantavi “O cara moglie” davanti ai cancelli della FIAT durante i famosi 33 giorni...
R. I trentatré giorni della FIAT me li sono fatti tutti. Secondo me è stata una sconfitta voluta.
D. Voluta da chi (a parte Agnelli & C., ovviamente)?
R. Anche da una parte del sindacato. In fondo c'era questa esigenza di ristrutturare, condivisa dagli stessi sindacati...Le ragioni della sconfitta erano quindi organiche. Un vero disastro comunque, con conseguenze irreparabili. C'è anche un altro aspetto da rilevare. In quei trenta giorni la mobilitazione fu praticamente tutta esterna; non c'era nessuno dei minacciati di cassa integrazione. Molti di loro erano giovani e in fondo è logico che un giovane se ne freghi se va in cassa integrazione. Al momento dell'accordo poi, come al solito, gli operai dissero di no e i delegati di sì. Ancora un'occasione persa per riflettere sulla democrazia dentro il sindacato...

I CENTRI SOCIALI A MILANO

D. Se Nando Della Chiesa avesse vinto le elezioni a Milano a quest'ora, con ogni probabilità, saresti “assessore ai Centri Sociali”...
R. E sarei subito ricorso alla consulenza di Primo Moroni. Tieni presente che, a mio avviso, è uno dei maggiori esperti di Centri Sociali, non solo a Milano. Fin dall'inizio ha studiato da vicino la nascita di queste realtà auto-organizzate**. Personalmente ritengo sia pericoloso rinchiudere sotto la stessa definizione di C.S.A. Situazioni estremamente composite. Soprattutto nel rapportarsi alla realtà esterna, al territorio. Autogestione è una parola bellissima, facile da capire e, apparentemente, da tradurre in pratica quotidiana. Invece il termine “territorialità” è più complesso. Anche da praticare correttamente.
E' opinione diffusa, anche in alcuni settori del Movimento, che se Formentini (ex sindaco leghista a Milano ndr) non avesse fatto del Leoncavallo una questione nazionale, forse il Leoncavallo rischiava di estinguersi per un processo di autoghettizzazione. Anche la questione del “casino” in ore notturne era poco più di un pretesto, un problema che si andava risolvendo: i compagni avevano già speso milioni per insonorizzare adeguatamente***.
Il problema vero era quello di sapersi porre in una prospettiva di reale apertura, di rappresentarsi con il territorio. E' una cosa nota che da almeno dieci anni le uniche, o quasi, novità culturali valide a livello europeo prodotte in Italia sono nate e cresciute nei Centri Sociali, sia per la musica che pe il teatro. Questo spiega perché il Leoncavallo fosse una cosa di giorno e un'altra di notte, quando veniva occupato da 4-5mila persone che volevano vedere le avanguardie artistiche. Giustamente Primo Moroni sostiene che l'apertura alla città dei leoncavallini è avvenuta solo “in difesa”, ossia come risposta tattica all'attacco della giunta. I dieci-quindicimila delle manifestazioni avrebbero potuto e dovuto essere molti di più. C'è stata la quasi totale assenza delle organizzazioni e dei partiti della sinistra. Non bastava la presenza per quanto significativa di Umberto Gay. Bisogna riconoscere che nonostante le assemblee al Teatro dell'Elfo non si è riusciti a spiegare adeguatamente alla città che il Leoncavallo riguardava tutta Milano, tutti i Centri Sociali...Personalmente ho scritto sull'Unità che non bastava firmare manifesti e appelli, ma che alle iniziative del Leonka bisognava partecipare fisicamente. Soprattutto nel caso di prevedibili interventi da parte della polizia. Bisognava far capire a quella testa di cazzo di Formentini (quello che chiamava i compagni del Leoncavallo “randagi che non hanno diritto di cittadinanza”) che il suo atteggiamento è politicamente controproducente oltre che sbagliato.

1500 IRRIDUCIBILI VECCHIETTI

D. Restando alla situazione milanese, cosa vorresti aggiungere?
R. A Milano non c'è solo il Leoncavallo. Il centro occupato di viale Transiti, per esempio, in questo momento è sicuramente il migliore centro di prima assistenza medica della città. Come laboratorio medico per analisi, come attrezzature comprate personalmente dai medici che vi operano volontariamente. Siccome ci vanno soprattutto extracomunitari anche via Transiti è a rischio con questa amministrazione leghista (stiamo parlando del 1995 ndr). Poi c'è Villa Mantea, un centro di prima accoglienza, per cui il solito Primo Moroni è riuscito a strappare un mandato. Io personalmente sono presidente di un circolo ARCI, costituito prevalentemente da anziani, che da un punto di vista logistico rischia di venir chiuso anche domani: non ha alcuna agibilità, nemmeno il numero civico...per ora non ci hanno sfrattato solo perché la giunbta non farebbe una bella figura a mandare le ruspe contro millecinquecento vecchietti.
A mio avviso comunque -e per concludere- anche da parte dei compagni si sono commessi errori grossolani. Figurati che non è ancora stata fatta una mappatura completa dei vari centri sociali e affini. Soprattutto penso sia anche una questione di responsabilità personale. Non è più possibile delegare sempre e comunque. Occorre sapersi impegnare individualmente: la responsabilità politica è anche soggettiva. Se sei convinto di una cosa e non la fai sei responsabile del suo fallimento. Voglio dire che se credo giusta una determinata manifestazione devo andarci di persona, non limitarmi a firmare l'appello. Altrimenti i Centri Sociali rischiano di chiudere...

Gianni Sartori

* nda Assieme a quelle di Gualtiero Bertelli, Stefano Maria Ricatti, Paolo Pietrangeli, Fausto Omodei, Claudio Lolli, Alessio Lega...magari anche Gianfranco Manfredi (almeno per i versi “Non aspettarti comprensione da lui, son troppi anni che non prende più il tram”...).

aveva trovato ospitalità. L'archivio, di inestimabile valore storico, rischiava di venire disperso e danneggiato a causa delle perquisizioni e del sequestro da parte della polizia. Moratti e De Corato: i mandanti.

* *nda casualmente, nel 2009, mi trovavo a Milano e ho partecipato alla manifestazione - non autorizzata e blindatissima- contro lo sgombero del CSOA Cox18 di via Conchetta dove l'archivio di Primo Moroni (1936-1998, fondatore della libreria Calusca)
http://www.carmillaonline.com/2009/01/22/sgombero-del-c...lano/

** *nda Confermo: ancora nel 1985 avevo visitato il Leoncavallo “storico” (quello originario) e già all'epoca erano in corso lavori di ristrutturazione e insonorizzazione (al prezzo purtroppo della cancellazione di molti dei bellissimi murales originari). Ricordo di aver anche conosciuto un giovane Daniele Farina (presumibilmente ancora “integro” e non ancora “cinico ideologo” come lo definì Primo Moroni) che mi regalò una copia del prezioso “Che idea morire di marzo” in memoria di Fausto e Iaio (assassinati nel marzo 1978 dai NAR).

author by Gianni Sartoripublication date Sun Oct 09, 2016 20:10author address author phone Report this post to the editors

IN MEMORIA DI DUE ANTIFASCISTI
(Gianni Sartori)

Quindici anni fa, quasi nello stesso giorno (rispettivamente 9 e 11 febbraio 2001), se ne andavano due tra i maggiori esponenti dell'antifascismo militante nel Vicentino.
Il Tar, Ferruccio Manea, a 86 anni; Ferrer Visentini a 90 anni.
Quella della morte quasi sincronica non è stata l'unica coincidenza. Le loro vite in qualche modo si erano già incrociate.
Nato a Trieste, Ferrer Visentini (il nome gli era stato in memoria del pedagogista libertario fucilato a Barcellona nel 1909) mi aveva raccontato con partecipazione, direi anche con orgoglio, di aver conosciuto il fratello maggiore del Tar, Ismene Manea, destinato a perire tragicamente nel 1944 per mano dei nazisti. Avevano combattuto fianco a fianco come volontari internazionali in difesa della Repubblica contro i franchisti (fronte di Caspe e battaglia dell'Ebro).
Sia Ferruccio che Ferrer parteciparono attivamente alla Resistenza, ma in seguito i loro destini personali erano stati diversi: il Tar quasi emarginato per il suo “estremismo” (tacciato a volte di “anarchismo”), Visentini rispettato militante del PCI e consigliere comunale dal 1956 al 1970.
Il saluto al Tar lo avevano dato gli antifascisti dell'Alto Vicentino al Circolo Operaio di Magrè di Schio mentre Ferrer Visentini era stato ricordato nella storica Loggia del Capitanio, in piazza dei Signori. Le note dell'Internazionale e di Bella ciao avevano accompagnato l'ultimo viaggio di entrambi.

FERRUCCIO MANEA, nome di battaglia “TAR”

Del comandante della “Brigata Ismene” (citato ripetutamente dal compaesano Luigi Meneghello, sia in “Libera nos a Malo” che in “ I Piccoli Maestri”*) conservo una serie di ricordi personali, un collage di incontri e conversazioni, a volte casuali, altre più approfonditi. E tante immagini fugaci di iniziative a cui entrambi abbiamo partecipato. Sia le manifestazioni organizzate a Schio da Lotta Continua (in particolare quelle contro il golpe cileno) che le riunioni nella sede del Gruppo anarchico operaio (GAO) di Marano Vicentino tra il 1973 e il 1974.
Nel 1974 toccò al Tar tenere l'orazione funebre per il “Borela”, un vecchio antifascista che egli considerava suo maestro. Personalmente avevo potuto incontrare questo anarchico scledense soltanto pochi mesi prima, all'ospizio di Schio dove regolarmente i giovani anarchici dell'Alto Vicentino si recavano a visitarlo. Ricordo che anche l'ultima volta, ormai costretto a letto, si preoccupava di devolvere una parte cospicua della sua esigua pensione a qualche prigioniero politico (in particolare a Giovanni Marini) e a sostegno di Umanità nova, giornale anarchico fondato da Errico Malatesta nel 1920.
Arrivai appena in tempo per raccogliere qualche testimonianza, poi ampliata dallo stesso Tar, sui precedenti libertari in zona: la visita di Pietro Gori (l'autore di”Addio Lugano Bella”) per l'inaugurazione della prima Camera del lavoro nel vicentino di ispirazione anarcosindacalista; le barricate sulla strada che collega Vicenza con Schio per sbarrare il passo ai fascisti messi poi in fuga a pistolettate da un gruppo di Arditi del Popolo (tra cui il Borela); la partenza forzata per l'Australia di una decina di famiglie di noti militanti anarchici dopo che per loro era ormai diventato impossibile trovare lavoro negli stabilimenti della zona.
Il corteo che accompagnò, a piedi, il Borela dalla camera ardente dell'ospizio verso il cimitero era composto, oltre che dai familiari, da una cinquantina di compagni: partigiani delle Brigate Garemi, esponenti dell'ANPI, anarchici da tutta la provincia, qualche militante di Lotta Continua e di lotta comunista. Numerose le bandiere nere (con l'A cerchiata rossa) e quelle rosse e nere (tipo CNT e USI). Sventolava anche una in odor d'eresia: rossa con l'A cerchiata nera. Ferma nella memoria l'espressione intensa del Tar, col volto tirato, direi livido. Conclusa l'orazione funebre per il Borela, nel silenzio totale pronunciava quasi un ordine: “Saluto, compagni!”. E decine di pugni chiusi si alzarono, ecumenicamente, senza distinzioni ideologiche, mentre la bara del vecchio Ardito del popolo scendeva nella terra.
Un altro ricordo, risalente al marzo 1985: il Tar al corteo di Padova indetto per protestare contro l'uccisione a Trieste di un esponente dell'Autonomia padovana (“Pedro” a cui venne poi intitolato uno dei più noti Centri sociali del nord-est). In seguito lo incontrai a Bassano (dove avevo portato una mostra contro l'apartheid, mi pare nel 1987) in occasione dell'incontro-dibattito con un responsabile in esilio del Pan African Congress (PAC, organizzazione dei Neri del Sudafrica, seconda solo a quella di Mandela, l'African National Congress, ANC). Da qualche parte dovrei conservare ancora i negativi delle foto che immortalavano il vecchio combattente antifascista insieme a due esponenti della lotta (anche armata) contro il razzismo istituzionalizzato di Pretoria, non a caso denominato “Quarto Reich”. Una continuità e un passaggio del testimone non soltanto ideali. Lo rividi ancora, sempre nel 1987, ai funerali del partigiano Alberto Sartori “Carlo”. Una scena che non avrebbe sfigurato nella Piazza Rossa, tra decine di bandiere rosse mentre cadeva la neve imbiancando sia la bara che il colbacco del Tar.
In seguito mi ero ripromesso di tornare a intervistarlo, di telefonargli, ma come spesso accade, rinviai la cosa di mese in mese, di anno in anno e non lo rividi più.
Invece nei primi anni settanta capitavo spesso a casa sua (e solitamente senza preavviso, forse anche in modo inopportuno, ma mai che mi abbia mandato a quel paese). Prima a Malo, poi nella casa colonica in aperta campagna dove si era trasferito. Passavo in bici, talvolta in moto, magari dopo un'arrampicata in Pasubio o un'escursione in Val d'Astico, Rio Freddo, Posina. Sempre ospitale, davanti a un bicchiere di rosso, se interpellato il Tar riandava volentieri alle sue avventure partigiane tra gli stessi monti. Del Pasubio mi resta la intensa descrizione di un cruento scontro a fuoco tra il Palon e il Dente austriaco. Ma soprattutto il fatto che Ferruccio, a guerra finita, fosse ritornato decine di volte tra quelle pietraie sfregiate dalle trincee per ritrovare e recuperare i corpi dei compagni caduti.
Altre volte ci avvinceva descrivendo in dettaglio i mille espedienti messi in atto per sopravvivere durante le gelide notti, soprattutto quelle passate in gran parte all'addiaccio durante il primo inverno. Con una tecnica che ricordava il film “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo” (Jeremy Johnson) mettevano grosse pietre a riscaldare sul fuoco e poi le seppellivano ricoprendole con uno strato di terra. Si stendevano quindi a dormire e, se il lavoro era stato ben eseguito, potevano sperare di dormire fino al mattino successivo mentre le pietre rilasciavano lentamente il calore accumulato. Accadeva talora che lo strato di terra fosse troppo sottile e in questo caso rischiavano bruciature, ustioni o un principio di combustione degli abiti. Se invece lo strato era troppo spesso, il calore finiva rapidamente e ci si risvegliava indolenziti e tremanti per il freddo nel cuore della notte.
Questo avveniva per esempio in Val d'Assa, destinata a diventare tristemente celebre per l'eccidio di Pedescala e di Forni operato dai nazifascisti nel '45. Sempre in Val d'Assa (sinistra orografica della Val d'Astico) si svolse un episodio che il Tar ricordava con rabbia. Si trovava in ricognizione con altri due partigiani e si era allontanato da solo per controllare un sentiero quando il silenzio del bosco venne infranto da grida e lamenti. Provenivano dalla radura dove aveva lasciato i compagni. Arrivato sul posto trovò uno dei due agonizzante; rantolando pronunciò le sue ultime parole: “Tar, tradimento!” e indicò la direzione verso cui l'altro (evidentemente una spia, un infiltrato) si era dileguato. Ferruccio si pose all'inseguimento e, ormai allo sbocco della valle, scorse il fuggitivo in lontananza. Forse fu il dolore per il compagno vilmente assassinato, forse il desiderio di vendicarlo (sembra che “Tar”, nome conferitogli da Alberto Sartori, significasse proprio “Vendetta”), fatto sta che nonostante la distanza riuscì a colpire, ma solo con il secondo colpo, l'infame. Dopo questo fatto, temendo di essere stati ormai individuati, il gruppo decise di trasferirsi verso Posina (destra orografica della Val d'Astico). Si accinsero quindi ad attraversare nottetempo la vallata che separa le pendici dell'Altopiano di Asiago da quello di Tonezza, dal Pria forà, dal Summano...Nonostante ogni accorgimento, i loro movimenti non sfuggirono ai numerosi cani presenti nelle contrade tra Cogollo e Arsiero e nella notte si levarono ripetutamente ululati e latrati che avrebbero potuto mettere sull'avviso i fascisti. Riuscirono comunque ad arrivare (“a passo di marcia”) indenni prima dell'alba a Castana e da qui a Posina. Anche se la storiografia non vi ha dedicato molte pagine, si può legittimamente sostenere che in queste valli, per qualche mese, si organizzò una vera e propria Repubblica partigiana, stroncata soltanto dal grande rastrellamento del 1944.
Proprio sopra Posina e Laghi (separate da un rilievo di modeste dimensioni) si erge il Monte Maggio, da cui è ben riconoscibile Malga Zonta dove un folto gruppo di partigiani (tra cui Bruno Viola, il “marinaio”) venne fucilato dai tedeschi dopo che avevano strenuamente combattuto fino all'esaurimento delle munizioni. A Laghi invece è stato recentemente restaurata la lapide, posta vicino ad un capitello, per il partigiano Vitella morto “in difesa del popolo” durante lo stesso rastrellamento; curiosamente la scritta è sia in italiano che in latino. Tutte queste vittime del nazifascismo erano state compagni di lotta del Tar che, anche a distanza di tanti anni, li ricordava con sincera commozione. Ricordava anche, con gratitudine, il cane che gli era stato vicino in tutte le vicissitudini della Resistenza e a cui, diceva, doveva anche la vita per tutte le volte che lo aveva avvisato anticipatamente di un possibile pericolo.
La vita non era mai stata tenera con il Tar, un operaio autodidatta che aveva cominciato a lavorare duramente in tenera età. Fu perseguitato dal fascismo e perse il fratello maggiore, Ismene, in circostanze drammatiche. Ismene Manea, muratore comunista emigrato in Francia, aveva combattuto in Spagna con le Brigate Internazionali fin dal 1936, prima nella formazione “Picelli” e poi nella “Garibaldi”. Venne fatto prigioniero dai franchisti nella battaglia dell'Ebro (settembre 1938) e da questi consegnato alla polizia italiana. Inviato al confino a Ventotene, dopo la caduta del fascismo dall'autunno 1943 partecipò attivamente all'organizzazione del movimento partigiano nel Veneto. Il 6 luglio 1944 venne catturato da un gruppo di ucraini al servizio dei tedeschi.
Torturato in maniera orribile, sarà fucilato il 12 luglio insieme a Giovanni Penazzato. Esistono le immagini, riprese coraggiosamente da un improvvisato operatore nascosto nel palazzo di fronte, del trasferimento dalla Caserma Cella di Schio al luogo dell'esecuzione. Appena saputo della cattura di Ismene, il Tar cercò invano di organizzare una formazione abbastanza numerosa da poter assalire la caserma dove il fratello era rinchiuso. Purtroppo era appena arrivato l'ordine di sganciarsi edi trasferirsi altrove in piccoli gruppi; quindi la maggior parte dei partigiani scledensi si trovava nell'impossibilità di essere allertata. La formazione fu in grado di ricostituirsi soltanto dopo alcuni giorni, troppo tardi per liberare i prigionieri. Successivamente la Brigata del Tar venne denominata “Brigata Ismene”. A questo dolore si aggiunse, proprio nei giorni della Liberazione, la morte prematura del figlio. Un solo rimpianto: non aver preso il mitra per procurarsi, armi alla mano, le indispensabili medicine dove si trovavano in abbondanza, nell'infermeria dell'esercito statunitense a cui si era rivolto invano.**
Nonostante tutte queste amarezze, negli anni successivi il Tar fu sempre lucidamente a fianco dei movimenti di lotta e contestazione, stimato e amato da varie e successive generazioni di giovani antagonisti.
Lo ricordano ancora tutti coloro che in momenti e con metodi diversi hanno lottato contro lo “stato di cose presente” (e magari anche futuro): dalla Resistenza al '68, dalla “breve estate dell'Autonomia” ai Centri sociali...E lo ricordano con le immagini fortunosamente riprese durante la “battaglia di Schio”, mentre corre attraverso una faggeta, piegato in avanti, colbacco ben calcato, pistola nella destra e arma automatica a tracolla...all'assalto del cielo.
Gianni Sartori

* nota: “...c'è una società da smontare, pensavo, e forse questa è la volta buona...La società non è stata smontata, però: dopo la guerra l'uomo col berretto di pelo tornò in prigione, e io dico che è una bella vergogna.”
(Luigi Meneghello, I Piccoli Maestri)

**nota:
“…ah la liberazione: fu un giorno tremendo.
Non potendo comprare la penicellina mio figlio l’ho visto morire mentre chi aveva il denaro quelli hanno sopravvissuto, mentre mio figlio è venuto a morire, il mio primo figlio, che aveva già sofferto scappando qua e là. Mai potrò perdonare questa infame società…io, ero pieno di miseria tanto, è vero che quando è morto mio figlio alla liberazione non avevo neanche diocan quelle 20 mila lire da prendere la penicellina che veniva venduta al mercato nero, così chi che gavea denaro, i figli dei ricchi oppure anche i vecchi che oramai avevano fatto una esistenza, avevano la possibilità di prendere la peniccellina e hanno protratto, la loro vita ancora per altri mesi o qualche anno, mio figlio invece che era nel fiore della vita perché non avevo una manciata di vile denaro da comprare questa penicellina, mi è morto proprio alla liberazione, subito dopo la liberazione quando tutti inneggiavano alla libertà ed erano tutti felici,
alla vittoria insomma, io purtroppo ho conosciuto una delle più grandi amarezze, per non avere questo denaro per comprare la penicellina. Così voglio dire che non perdonerò mai a questa società diocan ”
(dai ricordi del Tar registrati da A. Galeotto)

“Purtroppo solo la somministrazione di penicillina, venduta allora al mercato nero avrebbe potuto strapparlo alla morte…ma noi non disponevamo di tanto denaro. E pensare che appena una decina di giorni prima mio marito, che aveva nomea di “ladro di galline”, alla testa di un reparto della Brigata da lui comandata aveva ritrovato a Longa di Schiavon ciò che molti cercavano in quelle ore: il tesoro della sinagoga di Firenze trafugato dai nazisti in ritirata. Si trattava di una quarantina di casse ricolme di opere d’arte di inestimabile valore, che mio marito avrebbe potuto dichiarare “preda bellica” ma che preferì invece restituire immediatamente alla comunità ebraica”.
(Alessia Giustina, moglie del Tar)

FERRER VISENTINI, in Spagna per la Libertà
(Gianni Sartori)

Ferrer Visentini era nato a Trieste nel 1910. Il padre Ulderico, un calzolaio prima socialista e poi tra i fondatori del Partito comunista a Trieste, venne assassinato dai fascisti nel 1922. Gli aveva dato questo nome in memoria di Francisco Ferrer i Guardia, famoso pedagogista anarchico catalano fucilato l'anno prima, il 13 ottobre 1909 a Barcellona. Nativo di Trieste si considerava ormai pienamente vicentino avendo vissuto nella nostra città per molti anni in qualità di membro dirigente del P.C.I. prima e del P.D.S. poi.
In anni ormai lontani lo avevo intravisto nell'antica sede comunista vicentina (anche insieme a Sartori Antonio, altro operaio comunista volontario in Spagna) e poi meglio conosciuto alla presentazione di una sua preziosa pubblicazione sui volontari vicentini nella Guerra civile spagnola (“In Spagna per la libertà” Ed. ANPI Prov. di Vicenza). Fu in quella occasione che parlammo di Ismene Manea la cui foto segnaletica è riprodotta a pagina 48.
Tra i partecipanti, il poeta Fernando Bandini, autore della prefazione, Eugenio Magri, giovanissimo gappista durante la Resistenza, Gino Morellato che dopo aver combattuto nelle Brigate internazionali partecipò alla Resistenza francese raggiungendo il grado di capitano dei F.T.P. (Francs-tireurs et partisans, il movimento di resistenza interna francese creato ancora nel 1941 dal Parti communiste francais, PCF)
Lo rincontrai un paio di volte verso la metà degli anni novanta riportandone questa intervista. Troppo breve per riassumere in modo esauriente una vita tanto avventurosa, ma forse in grado di delineare la personalità di un “rivoluzionario di professione” del secolo scorso.

D. Innanzitutto qualche cenno biografico...
F.V. Provengo da una famiglia di socialisti, mio padre, un calzolaio con la terza elementare, fu uno dei fondatori del Partito Comunista d'Italia a Trieste. Mi chiamò Ferrer per un motivo ben preciso, un mio fratello fu chiamato Darwin, un altro Giordano Bruno...Nel 1926 mi iscrissi alla gioventù comunista cominciando molto presto a svolgere attività clandestina. Diffondevo materiale propagandistico in città e nei cantieri navali. Nell'ottobre del 1930 venni chiamato dalla direzione nazionale giovanile a dirigere l'attività clandestina in Lombardia. Per questo sfuggi all'arresto al momento della caduta dell'organizzazione giovanile a Trieste e, sempre nel '30, venni inserito tra i latitanti ricercati dalla polizia politica. A Milano, con documenti falsi, resistetti pochi mesi. Venni arrestato il 21 gennaio 1931 in seguito a una retata a Sesto San Giovanni.

D. Cosa è poi successo? Il carcere, il confino...?
Il carcere di sicuro. Sono stato processato dal Tribunale speciale e condannato a nove anni di reclusione per ricostituzione del partito Comunista. Fui inviato prima a Lucca, dove rimasi dal '31 all'estate del '33 e poi a Civitavecchia, dove vennero concentrati i politici. Venni amnistiato nell'ottobre del '34 per la nascita del figlio del Re.
Ritornai a Trieste mesi in libertà vigilata e nel maggio '35 scappai riprendendo l'attività clandestina. Ma mi andò male, venni ripreso e inviato al confino per due anni, dal '35 al '37, a Ponza. Il 24 maggio 1937 espatriai clandestinamente con un passaporto falso fornitomi dal partito e arrivai a Parigi il 27 maggio. Un ricordo direi sconvolgente risale all'ultima domenica di maggio quando partecipai alla grande manifestazione in memoria dei trentamila comunardi trucidati nel maggio 1871. Un milione di persone percorse i boulevards inneggiando alla memoria della Comune e in difesa della Repubblica spagnola. A Parigi collaborai con Ruggero Grieco (segretario del partito comunista) alla redazione di “Lo Stato Operaio”.
Io avrei voluto andare subito in Spagna dove era già in corso lo scontro armato tra i repubblicani e i franchisti, ma il partito non era d'accordo. Raggiunsi ugualmente la Spagna nel dicembre 1937 con Giuseppe Boretti che avevo conosciuto a Ponza e che era riuscito a fuggire dalla compagnia militare di disciplina di stanza a Ponza, riparando a Parigi. Questo compagno morì durante la battaglia dell'Ebro. Dopo un periodo di addestramento militare che mi fu molto utile poiché non avevo fatto il soldato in Italia, a Quintenar de la Republica, venni assegnato al IV Battaglione della Brigata Garibaldi. Qui svolsi mansioni di responsabilità del partito.

D. Quel periodo segnò il ripiegamento dei repubblicani...
F.V. I franchisti, grazie al consistente aiuto di fascisti e nazisti, erano all'offensiva su tutti i fronti. Ruppero il fronte a Caspe e avanzarono fino al mare, tagliando in due parti il territorio della Repubblica. Il nostro comando dispose il trasporto immediato verso la Catalogna di tutti gli organici dei centri di addestramento delle formazioni internazionali che si trovavano nella provincia di Albacete. Ci ricongiungemmo con le rispettive unità militari ed assieme ad altre unità spagnole prendemmo posizione lungo l'Ebro. La situazione era molto grave: l'esercito repubblicano era diviso in due tronconi. Inoltre eravamo nettamente inferiori nell'aviazione, nell'artiglieria pesante e leggera e nei carri armati; potevamo competere solo nell'armamento leggero. Fu una battaglia durissima. Noi della Brigata Garibaldi entrammo in azione il 3 settembre, prendendo posizione sulla Sierra Caballs* dove rimanemmo fino al 24 settembre. Furono 24 giorni di duri e continui combattimenti con gravissime perdite che raggiunsero l'ottanta per cento degli effettivi. Complessivamente la battaglia dell'Ebro durò tre mesi e mezzo, dal 25 luglio al 16 novembre con perdite complessive, calcolando entrambi gli schieramenti, di oltre 250mila tra morti, dispersi e feriti.
D. E dopo la Spagna, l'Italia?
F.V. Non subito ovviamente. Nel dicembre del '38 con Italo Nicoletto rientrai in Francia. A Parigi continuai a lavorare nell'organizzazione dei volontari antifascisti di Spagna e collaborai al quotidiano “Voce degli Italiani”. Ma lo scoppio della guerra e l'invasione del territorio francese da parte dei tedeschi mi costrinsero a rientrare nella clandestinità. Svolsi il mio lavoro politico tra i migranti con il PCF**. Nel giugno del 1941 venni arrestato dalla Gestapo e inviato al campo di sterminio “KZ” delle SS a Compiegna dove rimasi fino all'agosto del '44. Con l'avanzata alleata. Durante il trasferimento degli internati in Germania, riuscimmo a evadere con l'aiuto dei partigiani francesi. Dei quattromila che eravamo solo trecento erano riusciti a sopravvivere. Rientrai poi in Italia giusto in tempo per partecipare alla fase finale della lotta di liberazione a Torino. In seguito la vita e gli incarichi mi portarono stabilmente a Vicenza
Gianni Sartori

* nota: Sierra Caballs e Pandols, una catena collinare, costituirono quel “fronte di Gandesa” ricordato in una versione della famosa canzone repubblicana:

Si me quieres escribir
ya sabes mi paradero:
en el frente de Gandesa,
primera línea de fuego

** nota: da ricerche successive penso di poter affermare che Visentini ebbe modo di collaborare con il MOI (Main-d'oeuvre immigrée, organizzazione sindacale dei lavoratori immigrati della CGTU - Confédération gènéral du travail unitaire) che aveva attivamente sostenuto la Repubblica spagnola (anche con la partecipazione di suoi membri alle Brigate Intenazionali) e forse anche con il primo FTP-MOI (Francs-tireurs et partisans-Main-d'oeuvre immigrée) sorto nel 1941.
Del FTP-MOI è nota la vicenda dell'Affiche rouge, un manifesto stampato dai nazisti nel 1943 con le foto di 23 membri del FTP-MOI poi fucilati. Il gruppo era quello guidato dal poeta armeno Missak Manouchian. I nazisti cercavano, peraltro invano, di alimentare l'ostilità dei francesi nei confronti della Resistenza mostrando come a questa partecipassero molti stranieri immigrati (italiani, spagnoli, armeni...) e molti ebrei.

 
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